Micropagamenti: una soluzione per il giornalismo e per i contenuti-commodity?

Quando Blendle ha ricevuto il primo finanziamento dal New York Times la sensazione generale è che ci fosse, finalmente, almeno una piattaforma in grado di fare davvero il bene dei giornali. Riassumiamo per chi non sapesse: Blendle è una specie di edicola digitale. Se tu hai un giornale puoi contattarli e mettere i tuoi pezzi dentro la piattaforma. I lettori possono decidere di comprare il singolo pezzo. Una parte della transazione va a Blendle, il grosso va all’editore.

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Sulla carta (o meglio, sul digitale. Ok, ok, perdona la battutaccia), la quadratura del cerchio.

A febbraio del 2019 sono stato, insieme alla troupe che sta girando il film Slow News. A Documentary, proprio nella sede di Blendle per intervistare il fondatore, Alexander Klöpping (fra l’altro, a settembre 2018 Alexander ha pubblicato su Medium un divertente annuncio di lavoro alla ricerca di un assistente personale. È in olandese, ma per fortuna esistono i traduttori).

L’idea di fondo di Alexander è la stessa che ha spinto la redazione di Slow News a fondare Slow News, anche se noi, chiaramente, ci siamo mossi su un piano meramente contenutistico e abbiamo messo a supporto di questi contenuti quel che potevamo in termini tecnologici, non essendo degli sviluppatori. Ovvero: c’è bisogno di buon giornalismo, bisogna trovare il modo di rendere questo buon giornalismo fruibile e sostenibile.

Così, ecco l’idea: una piattaforma di micropagamenti.

Il micropagamento, di base, è molto difficile da gestire per l’editore per tutta una serie di motivi. È un argomento di cui abbiamo parlato spesso anche con gli abbonati di Wolf. In particolare:

  • è davvero molto difficile dare un prezzo al singolo articolo che sia contemporaneamente plausibile per il lettore, che sia profittevole per l’editore, che comunque induca il lettore a farsi una forma di abbonamento se desidera leggere più pezzi dallo stesso editore, che non svaluti il prodotto e il suo percepito. Come dice Seth Godin – per favore, ignora tutti quelli che fanno credere che il tema del suo libro sia abbandonare i social – il prezzo di un prodotto è una storia. Qui puoi vedere quattro prezzi di quattro articoli acquistabili su Blendle.

Quale compreresti? Il pezzo del NYT che ti invita a mollare il tuo smartphone che costa 0,19$? Quello del WSJ che costa 0,49$ e che ti dice che le app del tuo smartphone sanno un sacco di te e costa 0,49$? Quello del NYT che costa 0,19$ e ti parla del rapporto fra i giovani e il capitalismo in UK? Oppure le aspettative del meeting fra Trump e Kim Jong Un per 1,15$ su Foreign Affairs?
Personalmente non comprerei mai l’ultimo: 1,15$ per un solo articolo mi sembra davvero tanto. Gli altri costano poco e mi chiedo se valgano la pena. e infatti, fra le altre cose, Blendle ha una formula “soddisfatto o rimborsato”. Se l’articolo non ti è piaciuto puoi riavere i tuoi soldi. Anche questo è parecchio complicato da gestire per il singolo editore ed è sicuramente un punto a favore dell’applicazione.

  • è difficile gestire i micropagamenti per questioni fiscali e per questioni burocratiche. Per esempio: una realtà come Slow News, che è solo digitale, dovrebbe emettere una fattura – elettronica – per ogni singolo articolo acquistato. E appoggiandosi a strumenti di pagamento, avrebbe commissioni che si mangerebbero un’altra bella fetta del micropagamento
  • per alcuni, il micropagamento è solamente la parte superiore del funnel di conversione, come spiega questo pezzo del Niemanlab. In un certo senso, insomma, il micropagamento può funzionare più per una strategia di marketing con un’offerta tipo prova-e-poi-abbonati (che so, fai un pass giornaliero a tutto l’archivio a 1 euro) più che essere una reale leva di monetizzazione. Il che è sicuramente una strategia interessante, anche perché nel frattempo ti consente di incrementare il numero di persone che ruotano intorno al tuo ambiente editoriale. D’altra parte, però, anche questi micropagamenti vanno gestiti burocraticamente e anche le persone che si abbonano per un solo giorno o una settimana hanno bisogno di un customer care efficiente. Anzi. Forse dev’essere ancora più efficiente. E l’esperienza di queste persone dev’essere ancora più bella (superficialmente) di quella di chi è già nella comunità di abbonati. Questo perché posso far digerire ai fedeli di un brand un disservizio tecnico. Ma se una persona ti prova per un giorno pagando, quel che trova dev’essere tutto perfetto.

Se arriva una piattaforma, ecco che questi tre problemi dovrebbero essere risolti.

Dev’essere quello che hanno pensato al NYT quando decisero di investire sulla startup.

Nel frattempo, Frederic Filloux del Monday Note aveva già scritto che l’iTunes per il giornalismo (Blendle, appunto) probabilmente non avrebbe salvato il giornalismo stesso. E su Wolf, dove sperimentavamo con il primo plugin per WordPress di Blendle (funziona ancora) e dove guardavamo con interesse ai micropagamenti (ad un certo punto li implementò anche Internazionale, ricordi? ), scrivevamo già, a nostra volta, che il problema principale della piattaforma era l’assenza di una massa critica. Filloux, qualche tempo dopo, avrebbe magnificato alcune delle funzionalità della app, qui e qui.

Sarebbe riuscito, Blendle, a evolversi da iTunes a Spotify o Netflix del giornalismo?
Ma soprattutto, può esistere un Netflix del giornalismo?

Per qualche tempo, a Blendle, le cose andarono alla grande.
Poi, tanto per cominciare, gli omologhi hanno cominciato a fiorire. E sono arrivati Texture, inkl, Readly, SFR e via dicendo.
Oggi Blendle ha 15 dipendendenti (apparentemente in calo rispetto al passato). Dal 2017 non risultano nuovi finanziamenti. Apple ha lanciato il suo servizio per le subscription. Non proprio favorevole agli editori, per usare un eufemismo, ma nemmeno un piacere alla startup olandese.

Alexander Klöpping, nella nostra chiacchierata, mi ha spiegato – sebbene con entusiasmo da startupper – che effettivamente sono stati molto lenti nell’espandersi da un paese all’altro. E mi ha spiegato anche tutti i servizi aggiuntivi che offre Blendle: un abbonamento tipo Spotify, appunto, per 9,99€/mese e una selezione di 20 storie effettuata dalla redazione (con una profilazione rispetto ai tuoi interessi. Nota che questa evoluzione ha causato, per esempio, la defezione della NOS da Blendle); il podcast prodotto internamente; una selezione di notizie fatta in maniera editoriale e non algoritmica.

Una serie di servizi che, a mio modo di vedere, fanno parte di quel che manca alla piattaforma: il senso di comunità, il senso del brand giornalistico, l’autorevolezza.

Netflix e Spotify si sono imposti nelle loro nicchie di mercato non perché siano autorevoli come brand in sé ma perché ospitano prodotti di intrattenimento che poi le persone si guardano o si ascoltano. Hanno facilitato una serie di operazioni, hanno aggregato. Ma non basta. Al di là dei fan più accaniti e degli addetti ai lavori, non si ascolta un cantante, una band perché è prodotta da Sony o da Universal o da una discografia indipendente. Non si guarda una serie solo perché è della HBO. Non si guarda un film solo perché è della Metro-Goldwyn-Mayer. Invece, si compra un giornale, lo si legge, tanto per cominciare, per il suo brand e per quello che rappresenta.
E in effetti, dal modello dell’acquisto del singolo brano che propose iTunes, quel che ha fatto veramente la differenza in questo tipo di piattaforme è stata proprio la possibilità di sottoscrivere un abbonamento per ascoltare tutto. Cosa che ai giornali non può proprio piacere, per il tipo di competizione che si instaura fra testate, per l’essenza stessa del giornalismo.

D’altra parte, è vero che esiste anche la possibilità di comprarsi il film di turno online, magari attraverso Google Play o su qualche piattaforma pay più tradizionale. Ma lo fai solo se costretto dall’impossibilità di vederlo in altro modo e dalla necessità.

In buona sostanza, insomma, se dovessi scommettere i miei due centesimi di euro sul futuro di Blendle, temo che la parabola sia discendente. E, più in generale, credo che il micropagamento per i giornali e per tutti i contenuti-commodity che possiamo immaginarci sia davvero – tranne rarissimi casi – giusto una leva per portarti persone all’interno della parte alta del tuo funnel di conversione.

La grande lezione che stiamo imparando con Wolf, infatti, è che le persone, a meno che non siano lettori occasionali, non pagano per i contenuti e basta. Intendiamoci: una piattaforma come Blendle che dovesse riuscire a imporsi come brand andrebbe benissimo per i lettori occasionali, come spiega Steven Winkelman su Digital Trends:

«Se leggi occasionalmente, Blendle è la piattaforma perfetta. Scegli quando vuoi leggere un articolo, non vieni bloccato da un paywall. Ma se ti ritrovi a leggere in maniera massiva da una certa pubblicazione, allora avrebbe più senso abbonarsi proprio a quella».

Soprattutto se quella pubblicazione cerca di lavorare con la comunità dei lettori per costruire qualcosa di più della semplice fruizione di contenuti.

(AP)