Gli abbonamenti

Mio nonno materno, da cui ho preso il vizio della lettura, per anni è stato abbonato al Club degli Editori: ogni mese gli arrivavano due libri scelti da loro, che lui leggeva senza neanche porsi il problema di non averli scelti lui.

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Aveva scelto il Club degli Editori e tanto bastava. Il Club degli Editori esiste ancora e per anni è stato uno dei pochi esempi italiani di abbonamento sulla fiducia, una modalità di acquisto che è stata riesumata dalle “scatole a sorpresa”, come per esempio Hoppipolla: ti abboni e ogni mese arriva “una scatola di prodotti appositamente selezionati per stupirti e farti scoprire nuovi creativi”.

Per anni ho avuto l’abbonamento ATM, il mensile: lavoravo già in casa, quindi con necessità di spostamenti episodici e irregolari, ma poter prendere tutti i mezzi che volevo mi dava una sensazione inaudita di ricchezza e di libertà. Non esagero, perché quello era il mio vissuto, un vissuto che tra l’altro cambiava completamente il modo con cui usavo i mezzi pubblici. Oggi non lo faccio più, perché mi sposto ancora meno e quando lo faccio cerco di andare a piedi, in bici e in Car2go, sognando che un giorno ci sia un pacchetto Car2go+ATM, con un certo numero di ore di guida comprese.

Da anni, invece, non usavo più Office, sostituito dai programmi Apple equivalenti; l’estate scorsa, lavorando a #Luminol, sono dovuta tornare a Word (e ai suoi straordinari casini) e ho scoperto che potevo non comprarlo, perché potevo abbonarmi. Dieci dollari al mese e sono ancora abbonata, perché mi sono abituata ad avere più scelta di applicazioni e perché non so neanche più se Office si può comprare come un tempo. Pare di no, idem per Adobe, come spiega Fulvio Iori:

Corporation del calibro di Microsoft e Adobe, che fino a qualche anno fa sembravano destinate ad un lento quanto inesorabile declino, proprio grazie all’adozione di modelli di business a Subscription sono tornate agli antichi splendori.

Adobe dal 2012 ha migrato gradualmente il modello di business dalla vendita di “pacchetti” (che si pagano una volta sola all’acquisto) a quello a Subscription (pagamento di un canone di utilizzo mensile o annuale); nel 2012 il suo dividendo per azione era di 2.35 $, oggi è di 6.82 $. La crescita del titolo nel periodo 2012-2018 è stata del +793%. Inoltre, il titolo Adobe oggi vale 31 volte il dividendo. Nel 2012 il multiplo era di 12 volte.

Caso analogo quello di Microsoft, che dal 2013 ha migrato dalla vendita di pacchetti Office a quella a Subscription, con la suite Office 365.

Gli abbonamenti rispondono allo spostamento dal prodotto all’esperienza che stiamo sperimentando in tantissimi campi diversi: non vogliamo più possedere oggetti, vogliamo usarli quando ci serve.

Vale ovviamente per il software, per cui io invece di pagare l’abbonamento in palestra pago l’abbonamento ad Aaptiv e Daily Yoga (risparmiando un sacco di soldi e con molta più felicità), ma vale anche per il mondo degli atomi, basti pensare alla già citata Car2go e al lento passaggio di molte case automobilistiche dalla vendita al noleggio, di brevissimo (car sharing) e medio lungo periodo (penso ad Arval o Leasys).

Le vendite ad abbonamento sono ovunque, basti pensare a Prime, a Neflix e, nel nostro piccolo, a Wolf. Eppure se ne parla poco, pochissimo. Siamo sempre più abbonati e ce ne rendiamo sempre meno conto (che per chi vende abbonamenti è il massimo, meno te ne rendi conto, più a lungo resterai abbonato).

Sempre Iori, su Linkedin, elenca i mercati più adatti a un approccio simile, oltre a quelli già citati vale la pena di evidenziarne due, gli Online On-demand Home Services (il mio sogno), che vanno dai classici falegname/elettricista/imbianchino fino agli altrettanto tradizionali estetista/parrucchiere/massaggiatore.

A casa, da te, regolarmente.

Stiamo digitalizzando il mondo della ricca borghesia, abituata ad avere tutto a domicilio, rendendolo disponibile a tutti, un po’ come fatto con le consegne. A proposito: perché non dovremmo poterci abbonare al nostro kebabbaro preferito?

(MdB)