La fine dell’età dell’isteria

Il 15 settembre del 2010, Bob Hoffman pubblica su AdWeek un pezzo dal titolo “Ads in the Age of Hysteria“.

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Per darti un po’ di contesto: nel 1985, Hoffman aveva co-fondato la Hoffman/Lewis (H&L Partners), un’agenzia pubblicitaria indipendente in USA. È anche il titolare di un blog che, se non conosci ancora, ti consiglio di metterti subito fra i preferiti per letture caustiche e corroboranti al tempo stesso: si chiama The Ad Contrarian101 Contrarian Ideas About Advertising è un suo libro che puoi trovare su Amazon (1 dollaro e 10).

Il suo profilo LinkedIn contiene una chicca. Questa.

Il pezzo del 2010 inizia così (traduzione del sottoscritto, come al solito).

«Abbiamo appena vissuto il decennio più isterico da quando il primo fanatico del giorno del giudizio ha scoperto che potresti guadagnarti un bel dollarone dicendo che il mondo sta per finire».

In effetti, non so se te lo ricordi, ma quel decennio era iniziato con la più grossa isteria di sempre nel mondo digitale – e non solo – che poi si era rivelata, ovviamente, un bel nulla. Mi riferisco al millennium bug. Da lì in poi è stata una rincorsa all’ansia, perpetrata con ogni mezzo, in ogni circostanza. Sempre con lo scopo di farti fare soldi. Di tenerti lì fra gli appesi, gli agganciati a un cliffhanger infinito. Il cliffhanger è un espediente narrativo che funziona così: interrompi un’azione, una situazione in maniera brusca, proprio mentre è appena successo qualcosa di fondamentale all’interno della storia, subito dopo un colpo di scena o mentre il destino dell’eroe è appeso alla prossima fatalità programmata e scritta. Ovviamente, come tutte le tecniche, può essere utilizzata in maniera estremamente raffinata oppure diventare un cliché. Nell’immagine, puoi vedere un cliffhanger letterale, tratto da Mission: Impossible 2 (presa da questo elenco di situazioni da stuntman in Mission: Impossible 2, su Film Munch).

Che cosa c’entra l’ansia, l’isteria con la pubblicità? Hoffman lo spiega così:

«Se c’è una cosa che i guru della pubblicità hanno capito, è la relazione fra l’ansia e il flusso di cassa. Abbiamo passato decenni a creare l’ansia nei consumatori, convincendoli che, a meno che non avessero l’ultimo paio di jeans da 300 dollari, sarebbero stati a rischio di esilio dalla vita sociale».

Quell’ansia di cui parla Hoffman, nel frattempo, si era espansa. Non solo verso i consumatori, ma anche verso i clienti “B2B” espansa verso i clienti delle agenzie pubblicitarie:

«Una volta ogni tot mesi, ecco che si arriva con una nuova Cosa Che Cambierà Tutto, per far felici i nostri clienti e farli saltar sulla sedia. Siamo diventati bravi, nel farlo. Ad un certo punto abbiamo deciso che i video avrebbero cambiato tutto. E siamo diventati bravi a girare spot al mattino (per 50 dollari) per poi mandarli in onda nel pomeriggio. Poi abbiamo deciso che il videoregistratore avrebbe cambiato tutto […] Poi avrebbe cambiato tutto il web […]»

Se questo era vero per il mercato pubblicitario, possiamo dire senza problemi che nel frattempo (contemporaneamente) è diventato vero per l’ecosistema digitale e per come abbiamo visto mettere in pratica strategie, tecniche e trucchetti in tutti questi anni. Non solo siamo sempre alla ricerca della Next Big Thing invece di focalizzarci sulle cose che contano veramente. Ma siamo ancora immersi in un mondo in cui si pensa che due pulsanti e un paio di automazioni risolveranno tutto.

«Per far succedere qualcosa online non è sufficiente pigiare un bottone: smontare questa convinzione è il gradino che separa gli adulti dalla contemporaneità», scrive Mafe de Baggis in Luminol.

Questa piccola rivelazione, insieme alle – più caustiche ma semanticamente affini – osservazioni di Hoffman, sarebbero gli anticorpi di cui avremmo bisogno per arrivare alla fine dell’età dell’isteria.

Sì, è vero: ho mentito, nel titolo. L’estate del 2019 non è affatto la fine dell’isteria.

Mentre rivedo questo pezzo, per esempio, la homepage di uno dei due più importanti quotidiani italiani mostra a il conto alla rovescia per l’inizio delle consultazioni al Quirinale (è un’estate strana, quella italiana del 2019, e quando rileggeremo questo pezzo, magari fra qualche anno, chissà cosa ci ricorderemo).

I countdown, il farti credere che sta per succedere qualcosa che cambierà il mondo da un momento all’altro, la strategia del cliffhanger fa parte integrante dell’ecosistema comunicativo che abbiamo costruito e che scegliamo di popolare in quel particolare e specifico modo lì.

È indifferente che lo si faccia per convincerti a comprare un nuovo smartphone o per venderti il prossimo articolo o per farti avere una consulenza o per mostrarti che il prossimo episodio sta per partire o farti sentire che non puoi fare a meno di aggiornare compulsivamente una pagina perché non ti puoi perdere il seguito.

Dieci anni dopo il pezzo di Hoffman, siamo ancora belli immersi nell’era dell’isteria.

Sì, qua e là cominciano a emergere segnali di cambiamento. Ci sono algoritmi social che ti propongono contenuti “vecchi”. Una certa consapevolezza –per nulla diffusa – nel fatto che il contenuto prodotto sia un asset per un’azienda, e non qualcosa di cotto e mangiato, da buttar via dieci minuti dopo (vedi il concetto di obsolescenza dei contenuti, e la relativa necessità e possibilità di manutenerli, quando sono digitali). I motori di ricerca (aka Google) continuano a premiare contenuti “vecchi” ma “aggiornati” (cioè, con una loro solidità e autorevolezza costruita e man(u)tenuta nel tempo). La Cosa che Ha Cambiato Tutto non è arrivata da un giorno all’altro.

Come membri della community di Wolf, penso si abbia un dovere ben preciso: quello di contribuire alla fine dell’era dell’isteria. Si può fare solo avendo il coraggio di dire a clienti, lettori, colleghi, parenti e amici le cose come stanno. E si può fare solo mettendo insieme le competenze che stiamo costruendo insieme per farle diventare gli strumenti della cassetta degli attrezzi di cui abbiamo bisogno per lavorare. Non solo. Ne abbiamo bisogno anche per guardare al futuro e per innovare.

Non è una presa di posizione ideologica e non fa solamente e naturalmente parte della filosofia slow a cui, giocoforza, Wolf aderisce. No, è una necessità. Perché fintanto che siamo intrappolati nella ruota del criceto con l’ansia di rincorrere la Cosa Che Cambierà Tutto non saremo sufficientemente lucidi per pensare, per osservare, per innovare, persino per stare bene.

La sfida è trovare modi non prescrittivi e non distruttivi per far finire l’età dell’isteria e farla evolvere nell’era della consapevolezza (digitale).

[L’immagine di copertina di questo pezzo è un’opera esposta alla Biennale di Venezia 2019, si intitola Trojan ed è stata fatta da Yin Xiuzhen nel 2016]