Il ciclo vizioso (del contenuto)

Più o meno funziona così. E cerchiamo di capirci: non è colpa di internet. Non è colpa proprio di nessuno. Siamo noi che funzioniamo così.

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Funziona che tu ad un certo punto hai un contenuto. Quel contenuto è un quadro del 1300. O una Ted Conference. È una sinfonia. Quel contenuto è un reportage fotografico. È un manuale per un’attività di consulenza. Quel contenuto è un piano editoriale per comunicare i tuoi clienti oppure un post sul tuo blog, che usi per fare personal branding. È un album rock. È una lezione che fai dal vivo. È un plugin, una app. È un servizio che offri.

Funziona che quel contenuto ha un valore, che, almeno in teoria, è un compromesso fra quel che pensi che valga tu e quel che il tuo pubblico pensa di voler pagare per averlo. In realtà, poi, scoprirai che è il tuo pubblico a decidere davvero quanto vale, esattamente come è il pubblico a decidere che cos’è il tuo brand.

Poi, ad un certo punto, capita qualcosa.

Capita che l’innovazione tecnologica e sociale, in combinato disposto e mai deterministico, fanno sì che creare quel contenuto costi meno di quanto costava prima. Produrlo fisicamente costa meno. Persino diffonderlo costa meno.

È un processo che va collocato in prospettiva storica. Nessuno sognerebbe mai di farti pagare di più un quadro perché ha usato il blu. Ma se tu fossi in un epoca storica in cui il blu si ricava solamente dal lapislazzulo, pagheresti di più. Se volessi un abito color porpora oggi, ti costerebbe come un equivalente giallo. Seicento anni fa, no. Perché per ricavare la tintura color porpora si usavano i molluschi, per il giallo si usava l’urina delle vacche.

Al diminuire del costo di produzione e diffusione di un contenuto segue immediatamente una sovrapproduzione di quel contenuto. Siccome la maggior parte delle persone non ha competenze specifiche per produrre quel contenuto (pochi sono pittori, scrittori, musicisti, registi, pubblicitari, giornalisti di talento), la sovrapproduzione di quel contenuto si traduce in un abbassamento di ciò che viene percepito come di “qualità”.

E infatti la storia dell’arte si è riempita ben presto di croste prive di valore, così come la maggior parte delle stories su Instagram non hanno il minimo senso, il minimo gusto narrativo o estetico. Si rompe l’oligopolio di chi poteva produrre e diffondere i contenuti, si aprono le gabbie e via all’invasione, alla mercificazione, alla trasformazione in commodity.

Così, si arriva al content shock. Il problema del content shock è che anche la produzione di qualità si trova diluita a competere con tutto il resto. Ecco il disegnino brutto del ciclo vizioso, che la prossima volta toccherà a un altro formato, a un altro tipo di contenuto. 

Il disegnino l’ho fatto mentre ascoltavo a San Francisco la presentazione di un progetto che si chiama CatchLight e che lavora per sostenere i lavori (anche molto estesi nel tempo) di fotoreporter.

Il fotoreporting, per molti, sarebbe morto a causa del fatto che tutti possono fare foto. Ovviamente, è una fesseria.

Invece di lamentarci di tutto ciò che percepiamo come qualitativamente non elevato, è il momento di scegliere di concentrarsi sul resto per capire

  • come crearlo
  • come diffonderlo
  • come renderlo sostenibile

Il punto è che, per quanto sia difficile dirlo oggi e per quanto sia più semplice abbandonarsi al pessimismo, quel che poi rimane continua ad essere ciò che viene percepito di valore da un gruppo di persone (di nicchia o numeroso che sia).

Perché un Banksy ha più valore – anche sociale, non necessariamente commerciale – di un qualsiasi altro graffito? Perché Lady Gaga farà per tutta la vita, finché vorrà, concerti negli stadi di tutto il mondo?

Certo, entriamo anche in campi in cui conta il gusto: Lady Gaga può non piacerti. O può non piacerti Banksy.

Entriamo anche in campi in cui conta il parametro con cui misuri il successo. Per esempio, nel divertente The Subtle Art Of Not Giving A Fuck, ad un certo punto il protagonista racconta la storia di un chitarrista di una band che viene cacciato dalla band e allora giura vendetta e dice che farà la band più famosa di tutte, o comunque almeno molto più famosa della sua vecchia band. Il chitarrista è Dave Mustaine. E in effetti, dopo la cacciata, fonda i Megadeth: 27 album all’attivo, 38 milioni di dischi venduti in tutto il mondo, una delle formazioni musicali più note al mondo.
Il problema, per Dave Mustaine, è che la band da cui era stato cacciato era i Metallica. 125 milioni di dischi venduti in tutto il mondo. Ops. E così, Dave, che è indubbiamente di successo, non è comunque contento: lo ammette candidamente nelle interviste. E se non è contento, diciamocelo, è per sua responsabilità, visto che per quel desiderio di vendetta aveva alzato l’asticella ad un livello che non dipendeva da lui.

Ma torniamo a noi, più modesti creatori di contenuti, di strategie di comunicazione, di lavori con visibilità decisamente inferiori a Banksy, ai Megadeth. Ai Metallica o a Lady Gaga.

Quel che possiamo fare è capire che cosa caratterizzi il successo delle persone, dei gruppi, delle realtà che abbiamo elencato (sono pochissime, potremmo metterci a elencarne molte altre).

Scopriremo che dietro al contenuto di successo c’è sempre un sapiente mix tra la qualità del servizio che ti offre il contenuto stesso, la comunicazione, la fiducia, il marketing, il design, la relazione con il pubblico.

Ecco. Vendiamo relazioni. Non contenuti.

E le relazioni, be’, quelle molto difficilmente potranno diventare commodity.