Come sai se hai letto il quaderno delle community, noi siamo abbastanza convinti che “non sono software”, ma relazioni tra persone, spesso tra persone che non si conoscono ancora, accomunate da un “social object”.
Il software serve per far funzionare un ambiente sicuro, gradevole e con buone funzionalità di moderazione nel momento in cui abbiamo deciso di ospitare le conversazioni tra i nostri clienti a casa nostra (in uno spazio owned) invece che in una piattaforma esterna. Una piattaforma esterna è una soluzione che ha i suoi difetti (noti), ma anche i suoi pregi (dimenticati).
Quali sono questi pregi?
Sostanzialmente cinque:
1) è gratis e se sei molto, molto bravo con i contenuti (di relazione) può rimanerlo
2) ha tempi di startup praticamente nulli
3) non ha costi diretti di manutenzione, problematiche legali, rischi di sicurezza: pensano a tutto loro
4) le persone che vuoi raggiungere la sanno già usare
5) c’è qualcuno che si preoccupa di migliorare continuamente la user experience
Una scelta come quella di Lush (community) o Unicredit (social care) implica invece, oltre ai tanti pregi, cinque difetti:
1) un costo (notevole) di progettazione dell’interazione e di sviluppo software
2) un lungo tempo tra la decisione e lo startup, con il rischio che corrono tutti i progetti lunghi, cioè di essere obsoleti alla release
3) costi diretti di manutenzione, rischi di problematiche legali, rischi di sicurezza
4) una soglia di ingresso (registrazione) e di apprendimento che può disincentivare molte persone alla relazione
5) la difficoltà di conciliare l’usabilità con la brand image, difficoltà che spesso si risolve a spese dell’usabilità (e quindi dell’esperienza)
Perché ricordare questi difetti?
Non per scoraggiare, anzi, l’obiettivo è quello di aiutare chi volesse affiancare o sostituire una community onsite per aggregare le persone raggiunte sui social media a prendere in considerazione tutti gli aspetti del progetto, non solo quelli del “liberarsi di Facebook”.
Meno tech, più design: oggi più che mai i software e i linguaggi di programmazione rendono più leggera (anche economicamente) la parte di sviluppo, permettendoci di dedicare tutta l’attenzione necessaria alla parte di progettazione.
Interagire con i clienti su una piattaforma esterna un po’ come affittare una bellissima casa al mare invece di possederla: se estate dopo estate torniamo nella stessa casa forse possiamo prendere in considerazione l’idea di acquistarla, ma sarebbe stupido farlo senza aver valutato i costi e la difficoltà della gestione di quella casa tutto l’anno.
Se proviamo ad applicare il Design Thinking alla socialità di un brand potremmo dire che gestire un account su una piattaforma social è il prototipo da testare per poi progettare l’interazione ideale a casa nostra.
Un buon progetto di community prende esattamente questa forma:
- ho empatizzato con i miei clienti
- ho definito una parte di esperienza da fare insieme
- ho ideato una serie di forme visive e testuali da dare a questa forma
- ho messo in campo uno o più prototipi per testarle.
Se questo test ha dato i suoi frutti – magari dopo un paio di iterazioni, cioè di revisione del processo empatia-definizione-ideazione-test – sono pronto a progettare la mia casa al mare, cioè una community che dipende da me.
Se invece mi sono limitato a pubblicare quello che volevo dire, senza imparare niente da questa relazione, portare in casa la relazione non mi porterà niente di buono.
(MdB)
(L’immagine qui sopra è tratta proprio dalla community on site di Lush).