Liberi e loghi

Una tempesta mediatica sul restyling del logo di Liberi e Uguali. Incredibile. Troppo anche per questi tempi in cui «Se tutti ne parlano dev’essere per forza una notizia».

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In poche ore, il marchio disegnato dal fratello di Pippo Civati è stato dissezionato dai social. Non sto a riepilogare la vicenda, di cui hanno parlato tutti i quotidiani italiani e persino Maurizio Crozza.

Tutta colpa (o merito) di tre foglioline, di una battuta infelice e della propensione italica a emulare il peggio di Aldo Biscardi in 140 caratteri.

Tanto che quando qualcuno ha postato la questione sul gruppo di discussione di Wolf c’è stato un moto di ribellione. Anche qui? Non doveva essere un posto in cui fare ragionamenti «slow»? Qual è il valore aggiunto, al di là del facile sberleffo?

Non è più la stampa, bellezza.

Ma, anche volendo tenere alto il ragionamento, cosa si può aggiungere su questo logo che ancora non sia stato detto o scritto? O che non abbia trovato posto sul blog di un esperto?

L’importante è avere qualcuno che ti fa le domande giuste, e su Wolf, per fortuna, non mancano le persone in grado di porle. Il simbolo di una forza politica ha ancora una funzione espressiva ed epica, oltre che informativa e strumentale? Quanto vale in termini elettorali? Ha ancora senso investire risorse per disegnarne uno? C’è ancora spazio per la comunicazione visiva professionale nel mondo dei grafici a cinque euro, di Fiverr, Logaster e Canva? Infine, come nasce un logo destinato a finire su una cartella elettorale?

Ne è nata l’idea di un veloce reverse engineering del marchio di Liberi e Uguali.

Partiamo dall’importanza del visual nella costruzione di un brand. Per qualche motivo l’opinione pubblica fatica a riconoscere la sua importanza e i giornalisti – non capendo gli aspetti tecnici – per lo più puntano sul folklore di un presunto «epic fail».

Per un professionista della comunicazione sembra quasi impossibile doverne discutere.

È vero che un logo non è un brand, ma nei bilanci delle imprese i segni distintivi sono asset che vengono valorizzati nell’attivo dello stato patrimoniale con cifre da capogiro. Se siamo di fronte a un cespite fondamentale per chi produce e vende beni, non si capisce perché dovrebbe essere diverso per chi si presenta agli elettori. Sul gruppo c’è chi parla di un punto percentuale di elettorato, di fronte a un simbolo ben mantenuto.

Il processo con cui un cambiamento di immagine avviene, prende in considerazione una quantità di elementi: posizionamento, analisi di mercato, tono di voce, promessa, personalità, narrazioni proprie e della concorrenza.

Il rebranding, anche per una forza politica, è un momento delicatissimo, perché mette in gioco una parte fondamentale della catena del valore e del rapporto con i destinatari del nostro messaggio. Pepsi qualche anno fa ha speso un milione di dollari solo per il restyling del nuovo marchio, a dire il vero non proprio impeccabile, e 1,2 miliardi di dollari per tutta l’operazione di lancio.

Alla base del lavoro grafico c’è il cosiddetto «rational», quello che, per usare una metafora, rappresenta l’esegesi dell’opera, il disvelamento critico del simbolismo nascosto nell’arte. Come sai fare a venderlo (o non venderlo) conta forse più in comunicazione politica che per un account di agenzia.

Gli elementi del design vero e proprio sono gli stessi da quando la tecnica pubblicitaria è stata codificata: forma, colore, elemento simbolico, denominazione e logotipo, payoff.

Partiamo dalla forma. Per le formazioni politiche italiane è obbligatoria quella tonda, non perché intendano esprimere l’idea di movimento tipica del cerchio, né perché gli spin doctor amino alla follia le spillette. La rotondità è espressamente richiesta dalla legge per il deposito delle liste. Il diametro dei prototipi da consegnare al Ministero dell’Interno è di 3 e 10 centimetri, rispettivamente per la scheda elettorale e i manifesti.

Questo è il motivo per cui non troverete mai un contrassegno quadrato, triangolare o di fantasia, come usava negli anni Venti del secolo scorso.

Il cerchio è il meno fisso dei simboli, ma non è la grammatica del design, ovviamente si scherza, che ci condanna all’instabilità istituzionale.

Passiamo alla denominazione e al cosiddetto logotipo, ovvero l’elemento testuale che esprime il nome. «Liberi e Uguali» era uno slogan del 2012 di Emergency. Mancanza di distintività? Interpellato per l’occasione, il fondatore Gino Strada ha ammesso che sono parole di tutti e la cosa non gli procura alcun imbarazzo.

Nel primo caso il font scelto è un «egiziano» (o Slab, nelle classificazioni anglosassoni). È un tipo di carattere nato all’inizio del XIX secolo, in concomitanza con le spedizioni di Napoleone nella terra delle piramidi. Le grazie squadrate e le aste pesanti si ispirano alle iscrizioni in geroglifici ed evocano monumentalità millenaria e austerità immota. Non proprio il massimo per una forza politica che vuole presentarsi come nuova.

Il secondo font è un «bastone» abbastanza moderno, di sicuro più attuale. A occhio siamo dalle parti del Frutiger, un font con caratteristiche di alta leggibilità e riconoscibilità, creato alla fine degli anni Sessanta per l’aeroporto di Parigi dall’omonimo e celeberrimo designer. In entrambi i casi si utilizza il grassetto per dare risalto, ma nella versione più recente il «LIBERI» diventa «Liberi», alto e basso. Facile dedurre che la massima evidenza lasciata alla parola «UGUALI» la renda l’elemento più rilevante della proposta politica.

L’allineamento su due righe rimane a bandiera a sinistra. La crenatura di «Liberi» è leggermente ridotta in modo da allineare la «i» finale con la «L» maiuscola sottostante. Il risultato conferisce dinamicità e sembra quasi comporre l’asta di una bandiera.

Passando al colore, ricordiamo che è conquista abbastanza recente nelle schede elettorali. lo sfondo del primo logo è bianco, con scritta nera. Il tocco di rosso è sulla E (ci torneremo quando parliamo di simbolo) e sul payoff (idem). Nero su bianco ha un alto valore di contrasto, alta leggibilità, ma in Italia possiede una caratterizzazione politica imprecisa e forse pericolosa per questo tipo di movimento. Non ho sotto il pantone di riferimento, ma in quadricromia lo spettro è quello inconfondibile del rosso, non dell’amaranto: 100% magenta e 100% giallo.

Cosa manca a chi ricorda le forze del Novecento?

Il giallo della falce e martello, il tricolore della bandiera italiana. C’erano nel mitico simbolo del PCI di Guttuso del 1953, ma è evidente che non è più tempo. Lo sfondo rosso con scritta bianca, come erroneamente si può pensare, non fu uno stilema del comunismo. Piuttosto lo si ritrova nei pittogrammi del socialismo e della tradizione cattolica di sinistra. Era così la scritta Libertas sul logo DC e una parte dell’iconografia del PSI, dove però spiccava anche il verde del garofano. Segue questo abbinamento l’attuale logo del Partito Socialista Europeo.

È possibile che nel 2017 le considerazioni da fare siano altre. Non trascuriamo la praticità. È molto più comodo poter dire a un elettore: vota il simbolo rosso.

Specie per un corpo elettorale di età media piuttosto alta.


Elementi figurativi e simbolici.

Nel primo caso la «E» ricorda quella di Emergency, per cui racconta un legame inconscio forte con i movimenti, l’associazionismo, il volontariato impegnato. Nel secondo caso diventa un elemento vegetale, le famigerate «foglioline». Non ero proprio arrivato alla parità di genere, limite mio.

Pensavo piuttosto a un richiamo all’ulivo, all’unità prodiana del centrosinistra da riconquistare e a quel periodo «mitico» per i riformisti.

L’uso della botanica a fini politici è antico e nobile. Pensate all’edera, al garofano o al biancofiore, per poi arrivare a querce e margherite. Nel gruppo di Wolf c’è chi ha giustamente commentato che l’importante sarebbe animare dibattiti identitari, come quelli che portarono dal simbolo del PCI a quello della nuova «cosa». Oggi è già tanto non finire «cespugli».

Oltre alle foglioline, appare uno «swoosh» sopra il payoff, un arco il cui spessore si assottiglia, come una linea cinetica. Sempre nel gruppo fanno notare come ricordi l’antico logo dei Democratici e Progressisti. Aggiungete «Movimento» e siamo proprio dalle parti di Articolo Uno.

Infine il payoff. Nel primo caso è rosso e richiama espressamente l’Articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani. Il problema non risiede solo nell’esplicitare il legame con una forza, elidendo gli altri soggetti fondatori. Il problema è che quando in Italia si parla di Articolo 1 tutti pensano che si parli di Costituzione, me compreso. Il resto è troppo complicato, meglio soprassedere.

Il nuovo logo, in linea con la comunicazione utilitaria che va di moda ora, inserisce quindi nel rafforzativo il nome e COGNOME del candidato. Solito discorso sull’età media dell’elettorato di sinistra e non solo. «Signora, quando va a votare, mi raccomando: il simbolo rosso, con il nome del presidente Grasso, in grassetto». «No, non ho detto che suo marito è grasso: segni il simbolo dove c’è il nome di Grasso, scritto grosso». «Signora mia, faccia la croce su quello rosso e grasso».

In conclusione di questo lungo divertissement l’operazione di restyling del logo di Liberi e Uguali mi pare guidata da una strategia precisa e da sicurezza tecnica.

Le scelte possono non essere condivisibili, ma ancor meno lo è l’attitudine di chi blandisce il «popolo della rete» a costruire pogrom virtuali costruiti sul nulla.

Senza ricordare che fine ha fatto il popolo del fax.