C’era il gorilla di Fabrizio De Andrè e c’erano le comari del rione che contemplavano lo scimmione, a debita distanza. Poi quello che fa? Scappa e rovina tutto.
Ecco: la storia di quel che vediamo in quella porzione incrementale del reale che è il digitale è piena di gorilla che scappano e che ti fanno crollare costrutti che stavano in piedi solo sulla carta. È piena di persone che dicono che si devono fare cose e che le insegnano e poi non le fanno. Non è che sia facile, mantenere questa coerenza. Wolf, per esempio, è un cantiere aperto sulla necessità di far collimare idee e azioni, sulla costruzione di un prodotto che, nel tempo, tenderà sempre più a quel che diciamo si dovrebbe fare. Sappiamo bene che in questo processo siamo appena all’inizio. Quel che sorprende, invece, è quando ci si trova di fronte a situazioni, prese di posizione, dichiarazioni, scritti, strategie, applicazioni, che divergono drasticamente dalla loro logica di fondo.
Vediamo alcuni esempi (da cui trarre, come al solito, lezioni).
Se provo a parcheggiare a Milano pagando con MyCicero (applicazione che utilizzo con successo a Roma per pagare i biglietti ATM, per esempio), quando arrivo al momento di compiere la transazione mi trovo di fronte questo singolare avviso.
Devo esporre il talloncino che ricevo via mail o che trovo nell’area riservata. Esattamente, come?
Sto pagando con lo smartphone usando una app. Devo cercare una tabaccheria, sperare che stampino e abbiano possibilità di accesso alla mail, mandare alla tabaccheria una mail e poi farmela stampare? Oppure devo lasciare lo smartphone acceso sul cruscotto col tagliando?
Eppure, la possibilità di pagare con MyCicero è sbandierata su ciascuna palina del pagamento della sosta milanese.
L’esperienza utente è completamente dimenticata (esiste un codice univoco che ha ciascuna macchina. Si chiama targa, è sufficiente per gestire un sistema non complesso di verifica dei pagamenti elettronici. L’ausiliario del traffico di turno potrebbe inserire la targa nel suo dispositivo se non vede il tagliando esposto. Se non risulta nulla, può stampare direttamente la multa).
C’è poi un elemento interessante che smonta tutta la questione della lotta alle fake news da parte di Facebook – quella pratica, non il dibattito. A smontare il dibattito ci ha pensato Mafe de Baggis nel numero 169 di Wolf – e che rende ridicola la quantità di parole spese dalla società di Zuckerberg e dai commentatori.
Eppure, è ben noto che chiunque possa modificare il copy di una condivisione su Facebook. Il che consente circolazioni di «notizie» come questa (che rimandano, ovviamente, a vere pagine de La Stampa).
Infine, torniamo a parlare di sport. Di calcio, in particolare.
Ieri, nel corso di una lezione sull’ottimizzazione del flusso di lavoro che ho tenuto ad Avvenire (fra poco replico), ho citato questo pezzo di Bocca su Repubblica, scritto dopo che il Paris Saint Germain ne aveva fatti 4 al Barcellona di Messi.
Un pezzo «a caldo» che si lancia in un’analisi che non è un’analisi e che commenta, sulla scorta dell’emotività, un evento che non è ancora concluso, non finito.
Il giorno dopo l’impresa del Barcellona, che ribalta il risultato d’andata vincendo per 6-1 (sì, probabilmente un rigore non c’era), Bocca fa una capriola.
Mentre scrivo, Ultimouomo, che il giorno dopo la partita PSG-Barcellona aveva prodotto un’accurata analisi del match spiegando come il PSG avesse vinto, non ha ancora parlato dell’impresa della squadra di Messi.
Insomma, abbiamo visto tre cose «calde» e di cui parlano tutti (nella nostra nicchia, non facciamoci illusioni, per favore):
- l’esperienza utente
- le fake news e la lotta alle medesime
- il valore del giornalismo e il lettore al centro
e, contemporaneamente, tre esempi pratici in cui le cose «buone» che si dovrebbero fare per servire l’esigenza ultima vengono disattese con una semplicità, una velocità, una leggerezza che lasciano senza fiato.
Oppure che, se ci fermiamo a pensare, aprono enormi opportunità per noi, che vogliamo fare le cose per bene.
Smettiamo di contemplare il gorilla e cominciamo a utilizzare nel migliore dei modi questo vuoto che abbiamo tutt’intorno.