Il turbante del facilitatore

Nell’estate del 2018 ho iniziato la collaborazione, come consulente, nell’ambito di progetto di moda-tessile dell’Ambasciata della Repubblica del Benin a Roma. L’esigenza era quella di essere messi in contatto con aziende italiane per proporre loro l’acquisto e la distribuzione di un prodotto della tradizione tessile beninese, un turbante da donna.

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La consulenza, di fatto, mi richiedeva di lavorare come facilitatore. Mi si richiedeva, cioè, di mettere in contatto realtà apparentemente lontane, di creare e mantenere un canale di comunicazione tra queste due parti in maniera chiara ed efficace.

Creare partnership con aziende provenienti da culture diverse non è un mestiere facile e un buon 80% del lavoro attiene proprio alla comunicazione, in particolare a quella capacità del comunicatore di semplificare, di cogliere le sfumature ruvide in un dialogo sapendole chiarire alla controparte.
Bisogna lavorare, in pratica, come mediatori culturali.

 

Come prima cosa, ho capito che era il committente africano ad avere un problema di obiettivo: non sapeva bene quale direzione intraprendere. Solo due cose erano chiare. Il prodotto, dei turbanti tradizionali in cotone biologico, tessuti a mano da sarte esperte che avevano messo in piedi una cooperativa femminile a Cotonou, e l’opportunità: l’Ambasciatrice aveva avuto garanzia, da parte della Camera Nazionale della Moda Italiana, di uno spazio d’esposizione riservato alla Settimana della Moda milanese dell’autunno 2018.

Meno chiaro invece era l’obiettivo che si voleva raggiungere: vendere i turbanti?
Avviare una partnership di produzione italo-africana?
Usare i turbanti come cavallo di Troia per spingere future forniture massicce di cotone biologico?

Inizialmente il compito del facilitatore si è concentrato sul trovare il budget per allestire l’esposizione, produrre la merce e pubblicizzare il tutto. Un budget stellare, 300/320mila Euro, con un tempo a disposizione decisamente troppo stretto: due mesi.

Dietro insistenza del committente e con mia grande perplessità ho contattato Benetton: dopo diverse telefonate, scambi di email e una prospettiva di appuntamento l’azienda veneta si è detta non disponibile a finanziare questo progetto e poco incline a puntare su dei turbanti africani. Ho compreso che la direzione da intraprendere era un’altra: rivolgersi alle nicchie.

Le ambizioni che il mercato può stuzzicare, a qualsiasi latitudine del pianeta, spesso fanno pensare troppo in grande: l’Ambasciata puntava su un cavallo, la multinazionale italiana dell’abbigliamento, che non avrebbe mai potuto nutrire a dovere: quanti capi può produrre una piccola cooperativa di sarte che filano, tessono e cuciono a mano il prodotto che vendono?

Per un prodotto così particolare, che sono certo vedrà un esplosione commerciale nei prossimi 3 anni al netto del trend degli ultimi due che lo stanno lanciando, occorreva muoversi cercando partner in modo verticale e non orizzontale. Studiando il prodotto, “nipote” del classico turbante beninese (ampio, alto e vaporoso) ma realizzato con un cotone biologico filato e tessuto a mano in più versioni, con una gamma di otto colorazioni diverse, da mani femminili dotate di un know-how tradizionale radicatissimo, ho capito che non era un prodotto “per tutti”. Ho così voluto analizzare ogni aspetto del prodotto per comprenderne le possibilità narrative e, quindi, sia di marketing che di comunicazione.

In pratica, ho fatto prima di tutto una ricerca storica.

Il turbante fu imposto dai coloni bianchi durante la schiavitù, un periodo di 450 anni in cui l’Europa ha letteralmente saccheggiato la forza lavoro africana per deportarla in America. Lo schiavista imponeva alle donne di coprirsi il capo per evitare che le chiome appariscenti attirassero lo sguardo maschile, dei mariti o degli stessi schiavisti. Costoro, incarnando una resistenza silenziosa e determinata, hanno iniziato a coprirsi il capo utilizzando tessuti sempre più colorati e annodandoli in modo fantasioso, sfruttando al massimo la creatività. Nei nodi in Africa occidentale c’è un vero e proprio linguaggio nascosto: il nodo raccontava la storia di chi lo portava, lo stato sociale e familiare, se avesse figli, se fosse serva o se era stata liberata, se aveva subito violenze, deportazioni, il rango, la genealogia. Una carta d’identità con più informazioni di una carta d’identità.

Poi mi sono messo a cercare di capire cosa rappresenti il turbante oggi, quindi ho lavorato sul presente, raccogliendo dati qualitativi e quantitativi.

Le donne beninesi, consapevoli della storia di cui i turbanti e loro stesse sono depositari, avevano deciso di unirsi in cooperativa per produrre tessuti e turbanti nell’ottica non solo di “crearsi un lavoro” ma anche di una quasi catartica riconciliazione, di un riscatto sociale tutto al femminile. Da simbolo della schiavitù a simbolo della riconciliazione. In questo senso colpisce il dato d’innovazione: la cooperativa ha saputo fondere al metodo tradizionale (dalla coltivazione alla filatura e tessitura con telaio di legno, tutte le fasi della trasformazione del prodotto vengono eseguite a mano e con il minimo di meccanizzazione possibile), un aspetto innovativo potente: rispetto ai tradizionali turbanti beninesi, enormi e pesanti, il Turbante B-B (in francese si legge “bebè” e non è un caso) è leggero, appariscente ma discreto, cucito con punti precisi per non doverlo ricomporre ogni giorno. Un turbante pensato e realizzato per una donna non-beninese. Un dato di innovazione non scontato e inedito nel mercato informale del fashion africano (che ha un valore, dice la Banca Mondiale, che oscilla tra i 5 e i 15 miliardi di dollari l’anno).

Lo studio del prodotto ha confermato l’intuizione avuta: andava raccontato, valorizzato, impreziosito.
Andavano trasmessi all’acquirente la passione, le visioni e gli “sguardi” africani.

La domanda, insomma, andava creata attraverso la fusione di un dato storico e di un dato emozionale.

Ho cominciato allora a sondare un terreno diverso: piccole case di moda con un pubblico fidelizzato disposto a pagare molto per accedere a capi d’abbigliamento rari, belli, ecosostenibili, eticamente sensibili. Tra questi brand ce n’è uno che ha catturato la mia attenzione: Laura Strambi Luxury Fashion, brand dell’omonima stilista milanese che si caratterizza per l’uso di materiali eco-sostenibili, bio-compatibili o riciclati, per una vendita quasi esclusivamente su e-commerce, in piccole boutique strategiche e un approccio rispettoso al lavoro manifatturiero.

Sin da subito, dalla presentazione del prodotto e della sua storia, la stilista si è mostrata appassionata ed entusiasta, attratta anche lei dalla storia ancor prima che dal prodotto tanto da decidere di fare del Turbante B-B il protagonista della collezione presentata alla Milano Fashion Week di febbraio 2019.

Un successo.

Per la prima volta in Italia, anzi per la prima volta nel mondo dell’alta moda internazionale, un turbante semi-tradizionale di cotone biologico, 100% fatto a mano da donne africane, calcava le passerelle più prestigiose del mondo della moda. Un prodotto che nasce in un piccolo paese dell’Africa occidentale, nei laboratori di una piccola e sconosciuta cooperativa, che diventa per un giorno il protagonista dell’alta moda internazionale. La customizzazione del capo, ideata dalla stilista Strambi, si è limitata all’impreziosimento dello stesso con cristalli, gioielli, ricami di altissima qualità manifatturiera.

 

Un’esposizione di successo che si è ripetuta, con eco ancora maggiore da parte dei sempre più curiosi giornali (sia di moda che, inaspettatamente, quotidiani come Il Giornale, che ha pubblicato una pagina intera sul progetto turbante). Il prezzo pagato alla cooperativa beninese è di 30 euro a capo, circa 11 volte il prezzo che viene fatto dalle stesse sarte ai loro clienti nei mercati di Cotonou.

Le difficoltà del facilitatore/comunicatore/mediatore culturale si sono invece concentrate tutte su alcuni aspetti più “culturali” che è importante sottolineare e che vanno conosciuti fino in fondo (e proprio a questo servono i facilitatori). Il primo riguarda l’immaginario: l’avere a che fare con l’Africa in senso lato e con un africano in senso più specifico induce sempre l’interlocutore europeo a mantenere un atteggiamento bonario ma in fondo paternalista. Nel progetto Turbante B-B il brand Strambi ha mantenuto sempre un forte imbarazzo nel parlare di prezzi, soldi, cachet, budget da allocare. In particolare ci si è sempre trovati in imbarazzo a chiedere, e in fin dei conti a non-chiedere, un contributo al partner africano per il lavoro che si stava facendo a Milano. E questo, in un qualsiasi altro accordo commerciale, non avviene mai: il risultato è che il brand italiano ha allocato un budget eccessivo per evitare l’imbarazzo di dover chiedere al proprio partner un contributo. Una caratteristica tutta “italiana” che che non deve esistere e che, in fin dei conti, si paga sempre.

Il secondo aspetto critico riguarda la puntualità nei pagamenti.

Una caratteristica che chi lavora in Africa o con gli africani conosce molto bene è “l’anticipo”: quando si prende una commessa e si stabilisce un costo il cliente sa bene, sempre, di dovere anticipare una cifra che oscilla tra il 30 e il 50 per cento del totale. Sempre. Questo serve per dare credibilità all’accordo e per mettere il lavoratore nelle condizioni ideali: può anticipare spese (ad esempio le forniture di cotone o le tinture naturali per colorarlo), può permettersi di lavorare con serenità e senza affanno (e quindi filare, tessere e annodare un turbante impiegando il giusto tempo per farlo e producendo, infine, un prodotto di alta qualità), non ha la pressione di dover fatturare altri lavori e può concentrarsi sulla commessa.

Questo aspetto strategico, il pagamento anticipato, è lontanissimo dalla mentalità italiana: a nord del Mediterraneo si preferisce prendere prodotti a credito o in conto vendita e saldare i fornitori solo dopo la vendita.

Un rapporto che tuttavia non è paritario e che impedisce, a tutti gli attori in scena, di lavorare in modo sereno: questo logora le partnership commerciali dall’interno, rischiando di allontanare i fornitori che una volta ottenuto il saldo ritengono l’acquirente non più credibile. Dal lato africano ci sono altrettante criticità che il facilitatore deve anticipare prima che esplodano: la più importante attiene la precisione delle rifiniture (alcuni turbanti sono stati consegnati con degli spilli all’interno, altri senza etichetta, altri con un nodo leggermente diverso da quello concordato con il committente).

Dal lato della comunicazione invece, raccontare un turbante africano in Italia è una sfida che parte dalla curiosità, ma anche dai luoghi comuni: è possibile infatti utilizzare questi ultimi per fare leva sui media (che ne parlano perché “l’Africa è povera” e “l’Africa si riscatta”) e portarli infine a raccontare la capacità di adattamento della manifattura africana e la visione d’insieme del brand italiano, uniti in una comunione d’intenti puramente commerciale e assolutamente non umanitaria.

(ASB)