Che cosa significa davvero ripartire dopo una crisi e quali possono essere gli strumenti di lavoro? Se ragioniamo in termini di ripartenza post COVID-19, il ragionamento non può essere limitato né limitante ma vedremo che sarà d’ampio respiro. Come sosteniamo in Slow News, questa è l’occasione giusta per iniziare a parlare sul serio del Mondo Nuovo.
Un possibile percorso che si può adottare è quello che mi piace chiamare di community branding.
L’idea di affrontare un percorso di costruzione di un brand comunitario mi è venuta dopo aver visto al lavoro alcuni ristoranti della Valle di Susa: otto cucine diverse, otto realtà di verse, si sono riunite in associazione e hanno cominciato a comunicare in maniera congiunta. Con un sito, ad esempio, e con del materiale cartaceo (una mappa degli 8 ristoranti). Il progetto è molto interessante anche se mi sembra non dispiegato in tutte le sue potenzialità.
Ho cercato su Google e ho trovato pochi riferimenti al community branding così come lo intendo io e come stiamo per vedere insieme.
Una bella definizione la offre un’interessante tesi di laurea di Gaia Daldanise, dell’Università Federico II di Napoli, che si intitola Community branding per la rigenerazione urbana. Valori culturali e identità di comunità.
Per “community branding” si intende un processo strategico “glocal” – calato nelle realtà territoriali e link operativo tra forme della tradizione e strumenti dell’innovazione – che utilizza il place branding per la governance dell’offerta territoriale, il place marketing per la gestione della domanda, il community planning e le imprese creative per la produttività
culturale del territorio. Grazie a questo processo, la valutazione/azione sul territorio si trasforma in un possibile nuovo metodo di valorizzazione integrata del patrimonio (Fusco Girard & Cerreta, 2001) che integri, con strumenti innovativi, la tradizionale Community Impact Evaluation (Lichfield, 1996).
In buona sostanza, si parla di gestione delle comunità territoriali lavorando sul territorio come se si trattasse di un brand unico, pur nel rispetto delle singole realtà.
Potrebbe essere un percorso lungimirante, quello di mettere insieme diverse realtà di un medesimo territorio per costruire, ad esempio, percorsi esperienziali come quello che abbiamo raccontato da Lisbona.
Ma chi l’ha detto che dev’essere solamente una questione legata alla localizzazione geografica? Si può ragionare in termini di community branding anche per mettere insieme persone e competenze diverse.
Quali possono essere i vantaggi? Se pensiamo all’esempio dei ristoranti, possiamo dire, ad esempio, che si possono unire gli sforzi per quanto riguarda la comunicazione (digitale e non solo).
Un singolo ristorante potrebbe fare molta fatica a gestire la sua presenza social/digitale e potrebbe, alla fine, ridursi a fare come molti: la pagina aperta su Facebook come un segnaposto, senza strategia, senza contenuti, senza null’altro che i dati per far prenotare al telefono. Oppure l’ennesimo profilo Instagram con foto di cibo.
Invece, se si immagina un percorso, una mappa, un’esperienza, ecco che le cose cambiano: realtà diverse che condividono medesimi valori potrebbero, ad esempio, affidare la gestione della loro presenza digitale a una stessa realtà, con il compito di rappresentare in maniera armonica non solo il sistema valoriale del percorso ma anche le singole realtà che ne fanno parte.
Quali possono essere, invece, gli svantaggi?
Be’, tanto per cominciare occorre che le persone che accettano di “consorziarsi” facciano un passo indietro rispetto al proprio ego per far fare un passo avanti al brand di comunità: non è detto che sia facile trovare un accordo e bisogna essere molto bravi a bilanciare i vantaggi per tutti, affinché nessuno si senta escluso. Ci vuole, in altre parole, qualcuno che lavori come facilitatore, come community manager. Altrimenti si rischia di fare gli interessi solo di qualcuno e di arrivare facilmente a conflitti. Culturalmente, ci vuole una sana predisposizione alla coopetizione.
Quali sono i requisiti e che cosa bisogna fare per non forzare la mano e per imbastire un’operazione sensata e proficua per un gruppo di lavoro (o consorzio o associazione o come vogliamo chiamarla…)?
Ancora una volta, per prima cosa, ci vengono incontro le 5W+H che ritroviamo anche nella tesi di dottorato che ho citato.
Per fare bene le varie fasi bisogna, però, tener presente alcune questioni:
- scegliere bene le realtà e le persone che si uniscono “in consorzio”
- decidere se esiste una forma giuridica per questo “consorzio” o se si può, invece, lavorare in maniera informale
- avere una base di valori condivisa
- definire da subito quali sono i meccanismi decisionali, quali gli elementi che si condivideranno, quali i costi che si divideranno, quali gli oneri che ciascuno dovrà sostenere e quali libertà di movimento avrà ciascun partecipante
- definire compiti, scadenze, responsabilità e obiettivi
- decidere il brand collettivo
- trovare le unicità di ciascun partecipante al “consorzio” in modo che si possano esaltare le differenze nell’armonia del progetto di comunicazione
- uniformare il tono di voce, l’estetica, il tipo di comunicazione, rispettando le differenze dei singoli
- progettare a dovere l’esperienza dei clienti, i customer journey nelle singole realtà e per il consorzio, e costruire un percorso che sia vantaggioso per il singolo e per l’intero gruppo di lavoro collettivo
Quali possono essere gli ambiti di applicazione di questa idea?
Per esempio (ed ecco perché l’introduzione):
- una località turistica italiana che vuole comunicare correttamente dopo l’emergenza
- un gruppo di freelance che offrono servizi complementari o che si compenetrano
- startup o aziende diverse che si occupano di pezzi diversi della medesima filiera o di filiere contigue
- …
La figura professionale che può promuovere un servizio di community branding deve saper fare il community manager sia per il gruppo di lavoro (eh sì, anche quella è una community) sia per i clienti di questo gruppo.