1. Professione Community Manager: Relazioni e confessioni (digitali)

Relazioni e confessioni (digitali)

Questo libro parla di persone e di relazioni. 

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Per scriverlo e per accompagnarti nel percorso che ho pensato per te, ho bisogno di avere una base di partenza condivisa. 

Non ho dati su di te, non so cosa fai e perché leggi questo libro e navigo completamente al buio. Probabilmente è per affinare competenze o per costruirne, o magari è per curiosità o perché hai sentito dire che quella del community manager è una delle professioni del futuro.

Quindi, il mio modo per avere una base condivisa è trovare esperienze che sia tu sia io conosciamo, e poi parlarti un po’ di me, in modo che almeno tu possa avere un minimo di contesto. 


Con buona probabilità tu e io condividiamo almeno un’esperienza (a parte quella della pandemia, ovviamente): abbiamo entrambi navigato almeno una volta su internet. Potremmo averlo fatto con un computer o con uno smartphone e potrebbe essere un’abitudine quotidiana oppure un fatto sporadico. Ma comunque sappiamo entrambi di cosa stiamo parlando. 

Quest’esperienza è la nostra base condivisa: un po’ poco, per costruirci su una comunità, ma è comunque un inizio.
Ma tu ti ricordi la prima volta che hai navigato su internet? Che anno era? Che cosa cercavi? Cosa volevi fare? Perché hai attivato una connessione? E poi, cos’è successo?

 
La prima volta che io ho navigato su internet con un modem US Robotics 33.6 Kbps che faceva tutti quei suoni strani che solo una certa generazione di persone saprebbe riconoscere al volo, volevo giocare a scacchi online. Era il 1996 ed ero nell’ufficio di mio padre. Giocavo già a scacchi dal vivo e avevo letto da qualche parte che c’erano siti dove ci si poteva confrontare con avversari da ogni parte del mondo. O almeno del mondo già dotato di modem e connessioni. Avevo sentito dire che a volte potevi avere la sorpresa di giocare contro qualche grande campione in incognito.

All’epoca ero iscritto alla Società Scacchistica Torinese, avevo conseguito in tempi relativamente brevi la seconda categoria nazionale, nonostante avessi iniziato l’attività agonistica in età non precoce. Mi piaceva giocare a scacchi, mi divertivo e tutto sommato mi piaceva anche frequentare altri scacchisti. 

Collegarmi a internet per giocare a scacchi, quindi, è stato qualcosa di naturale. Ho trovato il modo per giocare online (bastava avere una mail, scegliere un nickname e iniziare a giocare) e il sito che uso ancora oggi, Chess.com, è un’evoluzione di quell’esperienza originaria. 

Dopo poco tempo da quella prima connessione, internet è diventato parte integrante della mia vita. 

Ho partecipato molto attivamente chattando, scrivendo sui forum o sui newsgroup, mandando mail a mailing list e via dicendo. Nel 1997 mi sono iscritto a uno dei primissimi social network (anche se probabilmente non li chiamavamo ancora così), Sixdegrees.com. Si basava sulla teoria semiotica secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di 5 intermediari. Ho scoperto, nel cercarlo, che oggi si è trasformato in un social a inviti e che il mio vecchio account sembra non esistere più.

Come molte persone della mia generazione (sono nato nel 1978), pur essendo un migrante digitale, non ho mai sentito la differenza tra digitale e reale. Il mio rapporto con la tecnologia è sempre stato buono e naturale.

Avevo avuto in casa il Commodore 64 da quando avevo 6 anni. Lo potevo usare liberamente, sotto supervisione non rigida e lo usavo volentieri da solo e con mio nonno materno. 

Nonno Luciano, che ancora oggi resta una delle mie più grandi fonti di ispirazione, era un CB e radioamatore. Amava parlare con persone note o sconosciute usando la radio. Amava ascoltare le conversazioni. È lui che mi aveva insegnato a giocare a scacchi. Siccome abitavamo a qualche chilometro di distanza e non sempre c’era il tempo di giocare dal vivo, mi aveva dato una radio CB. La sera ci sintonizzavamo sulla frequenza concordata e giocavamo a distanza, dicendoci che mossa avevamo appena fatto usando la notazione algebrica, il modo più comune nonché ufficiale per registrare e descrivere le partite.

Fra le altre cose che sapeva fare o faceva mio nonno c’erano:

– suonare. La cosa mi indusse a suonare a mia volta uno strumento. Il clarinetto. Suonai per anni nella banda del paese di Sant’Antonino di Susa;

– aggiustare le cose. Non ho mai imparato a farlo e non mi sono mai sentito obbligato a imparare. Ma nel paese, siccome il nonno era quello che sapeva aggiustare le cose e non chiedeva mai soldi in cambio, ci portavano cibo e bevande;

– dare ripetizioni di matematica. Aveva studiato da autodidatta ed era in grado di dare ripetizioni fino al programma di Analisi Matematica II a ingegneria. Fu anche per questa sua passione, per quelle misteriose x e y che lui e i suoi alunni disegnavano su quaderni che ricopiavo di nascosto, che della matematica mi innamorai. E fu anche per quell’innamoramento – e per provare l’ebbrezza di andare a vivere fuori casa – che mi iscrissi a ingegneria biomedica. Nel tempo, però, ho capito che la formazione scientifica, che mi è stata utilissima, non mi avrebbe portato a fare il lavoro che fa per me;

– la Settimana Enigmistica. Grande passione condivisa con mia nonna. Fu proprio sulla Settimana Enigmistica che appresi dell’esistenza di un club che si chiama Mensa. Finii per fare il test di ammissione e poi per restare in contatto con i membri attraverso una serie di mailing list, cioè di liste in cui ci mandavamo mail per conversare. Ne moderai anche una per un po’, dedicata al mondo del cinema.

Uno degli amori che, invece, ho maturato autonomamente, è stato quello per il giornalismo. Ho cominciato a lavorare molto presto nei giornalini scolastici, ho contribuito alla fondazione di Zai.net, ho lavorato come collaboratore per svariate testate, fondato TvBlog (eh sì, nel frattempo lavoravo in televisione e mi occupavo anche di un sito che, per sua natura, essendo una verticalità tematica, raccoglieva gli interessi di una comunità di persone appassionate di televisione), poi ho diretto Blogo.it per quattro anni e mezzo e coordinato attraverso strumenti digitali una comunità di blogger, giornaliste e giornalisti. 

Ho una presenza digitale abbastanza strutturata. Per questioni anagrafiche uso tanto Facebook. Gestisco una newsletter che aggrega una comunità di giornaliste e giornalisti, comunicatori e comunicatrici, persone curiose dell’infosfera: si chiama The Slow Journalist.

Forse avrai già intuito perché ti racconto tutte queste cose, ma tanto vale esplicitarlo: che cos’hanno in comune tutte le attività di questa introduzione autobiografica? 

Sono attività che richiedono relazioni e che hanno a che fare con comunità di persone.

La comunità degli scacchisti. La comunità della banda e del paese, delle persone che venivano a sentirci suonare alle feste comandate, ai concerti, alle processioni e persino ai funerali; la comunità delle persone che richiedevano i nostri servizi, che ci aspettavano per le feste, che ci davano da bere e da mangiare quando faceva freddo e ti si ghiacciavano le dita sul clarinetto anche se avevi i guanti (quelli tagliati). La comunità degli ingegneri, da cui non mi sono mai sentito accolto e che probabilmente non avrei potuto frequentare sul serio. La comunità del paese. La comunità dei mensani. Quella di lettrici e lettori di TvBlog, quella delle giornaliste e dei giornalisti.

Se prendi ognuna delle comunità che ho citato (o altre, che puoi immaginare o estrarre dalla tua esperienza personale) e se provi a sviscerarne le caratteristiche e a scrivere, in maniera analitica, come funzionano, vedrai che hanno in comune una serie di cose:

  • ci sono le persone 
  • c’è la cosa (cui daremo un nome tecnico) per cui queste persone stanno insieme
  • ci sono i motivi per cui queste persone stanno insieme
  • ci sono delle regole (per entrare a far parte della comunità, per rimanerci, per uscirne)
  • ci sono attività, esperienze condivise, rituali
  • ci sono dei confini (che cosa vuol dire far parte di una certa comunità? E cosa vuol dire non farne parte?)
  • ci sono altre persone che potrebbero in qualche modo relazionarsi con la comunità
  • ci sono diversi gradi di appartenenza alla comunità
  • ci sono luoghi e tempi in cui le attività della comunità si svolgono
  • ci sono ruoli
  • ci sono strumenti utilizzati per facilitare la partecipazione alle attività

Potremmo continuare, e in effetti arriveremo alla fine di questo manuale con un elenco completo e con le attività che sono richieste da ciascuno degli elementi descrittivi e funzionali di una comunità.

Perché leghiamo tutto questo anche all’online, e dunque al digitale?
E perché la parola digitale, nel titolo di questo capitolo, è fra parentesi?

Perché una delle mitologie che si è diffusa di recente è che le community e il community management siano una peculiarità del digitale.

E invece le comunità sono sempre esistite, da quando siamo diventati gli animali sociali che siamo. Siamo animali sociali che hanno il bisogno, il desiderio, il piacere – a volte anche la paura – di relazionarsi con gli altri. Il digitale, internet, il web, i social sono stati prima un altro canale con cui relazionarsi con gli altri. Erano abitati da poche persone: una comunità, non necessariamente inclusiva. Anzi. L’internet dei bei tempi andati non è mai esistito: era un luogo abitato da persone con competenze specifiche, spesso ingegneristiche (non me ne volere se anche tu hai una formazione ingegneristica: condividiamo più cose di quante io stesso non voglia ammettere) e spesso caratterizzate da un atteggiamento di superiorità nei confronti delle persone cosiddette niubbe (altre declinazioni: newb, noob, n00b, nabbe, niubie…), cioè nei confronti di chi frequentava per la prima volta una comunità virtuale rivelando, allo stesso tempo, la propria inesperienza e ignoranza delle regole.


Col tempo la quantità di persone con una presenza digitale più o meno strutturata e attiva è aumentata talmente tanto da trasformare internet e i social in un ecosistema fatto di ecosistemi, da abitare e da vivere, in una gigantesca piattaforma relazionale suddivisa in tante piattaforme relazionali con nomi e loghi e (nella maggior parte dei casi), gigantesche società che li possiedono e fanno un sacco di soldi o almeno ci provano. 

Il vantaggio della presenza digitale è che consente una rappresentazione del sé non necessariamente identica a quel che siamo. Naturalmente tutto il mio racconto autobiografico è vero e verificabile.

Ma, come qualsiasi autorappresentazione, serve anche per costruire un’immagine di me in qualche modo autorevole e eclettica. Ho scelto la musica, gli scacchi, la relazionalità, il cinema: ho scelto cose che mi dovrebbero consentire di entrare in relazione con te che leggi e di dipingermi come una persona di cui ti puoi senz’altro fidare, perché ho esperienza di comunità e perché, come vedremo, uno dei pre-requisiti per parlare di comunità è la trasparenza.

Il punto è che ogni autorappresentazione ci sembra dover essere perfetta, senza macchia. È per questo che le autorappresentazioni non sono quasi mai credibili. Tendiamo a rappresentarci meglio di quel che siamo, mica solo sui social. E lo fanno anche le aziende, non solo le persone. Dimenticandosi la prima regola del brand: il brand non è quel che decide il Consiglio d’amministrazione. Non è quel che decide l’amministratrice delegata, quel che dice il capo del marketing. Il brand è quello che del brand dicono le persone. 

E se la pubblicità e il marketing vorrebbero che tutto fosse più bianco, la trasparenza richiede di ammettere anche qualche difetto.

Insomma, bisognava arrivare alla confessione: c’è una seconda ragione per cui sono andato su internet la prima volta. Da adolescente in preda agli ormoni e curioso di sapere cose, avevo sentito dire anche che su internet si trovassero contenuti erotici. Col tempo questa verità che mi era stata rivelata sarebbe diventata addirittura un buffo meme ispirato da un musical, Avenue Q, protagonisti i Muppets, in cui una canzone si intitola «Internet is For Porn». E forse non lo sai, ma uno dei siti con contenuti pornografici più famosi del mondo ha una sezione interamente dedicata alla community

Ecco, spero che tu possa convivere pacificamente con la mia autorappresentazione e al tempo stesso con questa confessione di un peccato veniale: avrai un’immagine di me decisamente meno idealizzata e più umana. E sono sicuro che questo libro e il percorso che faremo insieme ti piacerà. 
Se per qualche motivo questo ti provoca turbamento e preferisci i brand che lavano più bianco, per favore, fai finta che non ti abbia mai detto niente, resetta, credi solo alla versione agiografica e celebrativa che l’autore ha voluto fornire di sé e arriva comunque fino alla fine: prometto che sarà un percorso utile.

C’è un’ultima cosa che vorrei aggiungere prima di iniziare questo percorso. Ed è il motivo per cui ho iniziato a interessarmi al concetto di comunità, ma anche lo scopo che mi piacerebbe si perseguisse, in generale, tutte le volte che si parla di progettare, servire, gestire una comunità.

Per farlo, citerò un’intervista che Barack Obama ha rilasciato a Ezra Klein, giornalista del New York Times. Si parlava di alieni. Della possibilità di avere un contatto con loro. E Obama, ad un certo punto, ha detto così (la traduzione è mia): «Le differenze che ci sono su questo pianeta sono reali. Sono profonde, e sono causa di tragedie enormi ma anche di gioia. Siamo solo un gruppetto di esseri umani, con dubbi e incertezze. Facciamo del nostro meglio, e il meglio che possiamo fare è trattarci bene a vicenda. Perché siamo tutto ciò che abbiamo».

Ecco. Spero che anche tu abbia voglia di interessarti alle comunità per trattarci bene a vicenda. Perché siamo tutto ciò che abbiamo.