Wolf. 104

Shitstorm

Come in una saga dove il primo film era già poco riuscito, è arrivato sui nostri schermi il sequel del Fertility Day. Probabilmente sai già tutto sul tema: foto orrenda, largamente ambigua e «razzista», o forse classista, o forse semplicemente tutto-sbagliato (non è che se ci fosse stato anche un ragazzo dalla pelle-non-bianchissima nella parte superiore super-pettinata e laccata, quasi ariana, le cose sarebbero cambiate molto, sia chiaro).
A me, però, interessa altro.

#Fertilityday Ritirato opuscolo e aperta indagine https://t.co/xymsZ1PjF6 pic.twitter.com/DtZ3DKqLUs
— Agenzia ANSA (@Agenzia_Ansa) 21 settembre 2016

Mi interessa capire, per esempio, come sia possibile che un’agenzia che lavora per il pubblico, nel 2016, si possa permettere di realizzare un volantino utilizzando due foto stock di una tristezza imbarazzante senza che nessuno se ne accorga.
Mi interessa capire cosa intenda il Ministro Lorenzin quando dice che «l’immagine visionata e vidimata dal Gabinetto non corrisponde esattamente a quella apparsa sul sito». Si può vedere, l’immagine visionata dal Gabinetto?
Mi interessa capire chi ha scelto il dirigente responsabile che Lorenzin ha rimosso, come aveva lavorato questo dirigente fino a questo momento, quali sono i risultati che aveva ottenuto, come era stato scelto, chi gli aveva indicato le linee guida da seguire, come avveniva l’approvazione delle campagne di comunicazione. Sul sito del Ministero, ho scaricato il curriculum vitae di Daniela Rodorigo (Direzione generale della comunicazione e dei rapporti europei e internazionali). E mi sono fatto altre domande che l’abbonato medio di Wolf condividerà con me.

In nessun momento della formazione professionale del dirigente c’è alcunché di inerente alla comunicazione.
Mi interessa andare sulla pagina social di Mediaticamente (ne abbiamo parlato nel numero 95 di Wolf, mentre impazzava la prima ondata di indignazione social) che è almeno una delle agenzie che ha lavorato al progetto di comunicazione del Fertility Day) e vedere quali sono le reazioni. È una shitstorm (che sembra più elegante di tempesta di merda, ma è di quello che stiamo parlando).
Ma è una shitstorm molto particolare, perché viene invasa la parte delle recensioni dell’agenzia, e in particolare, a quanto sembra, da addetti ai lavori.

Mediaticamente, ora, dovrà fare il suo bel lavoro per cancellare la web reputation negativa che si è costruita.
Solo che ha già iniziato con il piede sbagliato. Il comunicato pubblicato su Facebook con cui vorrebbe «fare chiarezza» (comunicato del 2 settembre), infatti, è un concentrato di errori che si vanno ad accumulare al pregresso.

La chiarezza non è chiara. Si capisce solamente che l’agenzia non si è occupata del logo e del nome dell’evento. Amen.
Uscito il sequel, questa volta il profilo Facebook dell’agenzia tace. A volte è meglio tacere, come insegna la regola numero uno del manuale di chi deve gestire una situazione di crisi. Ma quando si parla, bisogna farlo in maniera chiara e, se il caso, prendersi le proprie responsabilità, ammettere gli errori commessi e magari anche chiedere scusa, invece di attribuire ogni responsabilità a terzi (anche quando si rovescia la piramide, è sempre colpa di terzi).
Del resto, l’immagine di copertina della propria pagina Facebook, un’immagine, deve essere molto chiaro, scelta da un’agenzia che fa comunicazione è sbagliata per Facebook. Infatti, da mobile, risulta ridicolmente tagliata.
Così: «La comunicazione che lascia il».


Che cosa impariamo oggi, da tutta questa storia?
Che il web del 2016 è una cartina di tornasole, che svela i bluff. Comunicare, informare, fare il social manager sono mestieri che si imparano sul campo, con 10mila ore di pratica. Bisogna saper fare le cose, non basta dire di saperle fare. Nel nostro ambito, è necessario che i professionisti veri, quelli che si sono formati lavorando quotidianamente, cercando di capire le dinamiche non solo della comunicazione in senso lato ma anche, fisicamente, degli strumenti che il web mette a disposizione, si uniscano in un processo ecologico: bisogna fare in modo che un ambiente inquinato da scelte sbagliate, fuffa, buzzword e quant’altro diventi un ecosistema sano, dove si possano fare cose belle, al servizio delle persone e con professionalità. Utopia? Probabile. Ma intendiamoci: non è che io mi illuda che la shitstorm cambi le cose. Non cambierà nulla, i «cambiamenti» richiedono generazioni. In alcuni casi «ere».
In più, questo è il settore pubblico. E dunque la magagna salta fuori anche per quel senso pruriginoso dell’antikasta che ci fa sentire tutti più bravi.
Se passassimo al privato e cominciassimo a scovare tutte le disfunzionalità di aziende piccole, medie e grandi, non finiremmo più.
La storia vale comunque la pena di essere «salvata» a futura memoria per capire come non fare. Perché si fa davvero fatica a trovare una sola fase di questa iniziativa in cui si siano seguite procedure corrette e buone pratiche. E tutto questo – immagino sia chiaro, ma preferisco precisarlo – prescine completamente dal contenuto e riguarda solamente il contenitore.
Comunque. Oggi è il Fertility Day. Se tutto va bene non ne parleremo mai più, se non, appunto, perché ce lo ricorderemo come esempio negativo. Il profilo Twitter dell’evento tace da ieri, mentre finisco il numero di Wolf.

Wolf. 104

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