Cominciamo subito con la brutta notizia: il libro di cui parliamo, Pressed for Time – The Acceleration of Life in Digital Capitalism, di Judy Wajcman, non è ancora stato tradotto in italiano. Il che è solo parzialmente comprensibile: come tutti i saggi di tradizione anglosassone, infatti, anche questo è sicuramente molto accademico e segue uno stile di scrittura tipico di queste pubblicazioni. Ripete spesso le idee di fondo, fa continui richiami ai capitoli precedenti e a quelli che verranno.
Detto questo, che è una premessa doverosa per chi non ha dimestichezza con questo tipo di testi, la bella notizia è che questo è un libro che, se hai la possibilità di leggerlo, ti aprirà le porte alla comprensione di una delle materie interdisciplinari più interessanti dei nostri tempi. Si chiama STS, acronimo che sta per Science and Technology Studies, una disciplina che si è sviluppata a partire dagli anni ’60 e ’70. In Italia esiste la STS Italia – Società Italiana di Studi su Scienza e Tecnologia dal 2005.
Di cosa si occupa Judy Wajcman? Apparentemente del tempo.
E di questa società, quella contemporanea, digitale, diciamo così per semplificazione, che tende a comprimere tempo e spazio fino ad annichilirli. Detta così sembra catastrofista, ma probabilmente l’abbattimento delle barriere e dei confini – con buona pace dei sovranistri – è una delle tendenze di lungo periodo più istintive degli esseri umani. Fra questi confini ci sono anche lo spazio e, appunto, il tempo.
«Quanto tempo abbiamo», spiega l’autrice, «è un tema cruciale di libertà e indipendenza individuale, ed è anche una misura di uguaglianza!.
Ora: moltissimi studi in tutto il mondo ci dicono che le persone, soprattutto nell’universo occidentale, si sentono sempre più sotto pressione temporale. La colpa, diciamo seguendo la narrativa tradizionale di quest’epoca, è della tecnologia. Anzi, per la precisione di internet. O degli smartphone. O meglio: dei social, che si inglobano tutto il tempo che abbiamo a disposizione.
Questo è quello che Wajcman chiama il paradosso della pressione temporale. Questa sensazione di affanno esiste e questo fenomeno avviene nonostante – si badi bene – la tecnologia abbia come scopo preciso quello di migliorarci la vita e farci risparmiare tempo. In alcuni casi questo scopo è stato addirittura utilizzato come leva di marketing per vendere prodotti: pensa a quanto tempo hanno fatto risparmiare, in casa, invenzioni come il microonde e la lavatrice.
Insomma, nel bene e nel male possiamo dirlo così: la tecnologia causa accelerazione delle nostre vite.
Oppure no?
Ecco. Oppure no è proprio il punto di partenza cruciale.
Wajcman prende tutti i nostri pregiudizi rispetto alla tecnologia e li scardina uno a uno, demolendoli a suon di studi – tutti elencati nel testo e nelle note, copiosissime, interessanti e degne di ulteriori letture e di approfondimento di lungo periodo – e di considerazioni logiche.
Il primo modo per approcciare l’argomento e per scardinare i pregiudizi dei tantissimi studi che dicono cose è quello di collocarli in prospettiva storica. Per esempio: perché si parla sempre di internet, come di quell’invenzione che ha velocizzato radicalmente le comunicazioni umane (con tutto quel che ne consegue), quando la vera invenzione disruptive è stata il telegrafo? Proprio così. È il telegrafo che, per la prima volta nella storia dell’umanità, separa il contenuto del messaggio dalla necessità di trasportare fisicamente il messaggio stesso.
«Viviamo le nostre vite circondati da cose, ma tendiamo a pensare solo ad alune di esse come se fossero tecnologia. Tendiamo a sopravvalutare l’impatto delle nuove tecnologie, in parte perché quelle vecchie sono state assorbite da ciò che arreda le nostre vite, al punto da essere diventate quasi invisibili», scrive Wajcman.
E poi propone una definizione che Lord Salisbury, primo ministro britannico, nel 1899, diede del telegrafo: «ha messo insieme tutta l’umaità su uno stesso piano, dal quale chiunque può vedere tutto quel che viene fatto e sentire tutto ciò che viene detto, e giudicare ogni politica che viene perseguita, esattamente nel momento in cui tutto ciò accade». Tutto questo interesse per un’invenzione cruciale portò, contemporaneamente e 120 anni fa «lo stesso tipo di dichiarazioni euforiche e di accuse di banalizzazione che hanno una strana somiglianza con le accuse che sono state mosse a Twitter».
Il secondo modo è quello di vedere la tecnologia come un insieme di pratiche socio-materiali, un insieme di «umanità, macchine, infrastrutture, istituzioni e pratica quotidiana». È proprio questo uno degli scopi dell’STS: scappare dal determinismo digitale (o tecnologico) e «dimostrare che gli artefatti sono formati socialmente, non solo nel loro uso ma anche nel modo in cui sono disegnati e progettati e nel contenuto tecnico».
Cioè: «la tecnologia non è un prodotto di imperativi tencici razionali e non è detto che una particolare tecnologia triongi perché è intrinsecamente la migliore. […] Anche scelte politiche sono incluse nel design e nella selezione delle tecnologie».
Ovviamente – Wajcman è costretta a ripeterlo in tutto il libro – sostenere questo approccio e dire «che la tecnologia ha effetti sociali complessi e contingenti non significa dire che non abbia effetti sociali».
L’obiettivo dovrebbe essere quello di non limitarsi a «sostenere o opporsi alla tecnologia, ma piuttosto capire come fare a interagire in maniera strategica con le tecnoscienze mentre, al tempo stesso, ci si mantiene fortemente critici».
È l’unico modo per adottare una politica emancipatoria rispetto al nostro tempo e rispetto alla tecnologia stessa.
Nel suo viaggio attraverso le invenzioni più disparate, Wajcman ci mostra una serie di paradossi o di effetti contrastanti di cui bisogna tenere conto e dimostra che
- l’oppressione temporale è soggettiva e spesso riguarda classi di persone ben precise. Non bisogna generalizzare l’esperienza personale
- ci sono enormi differenze fra il modo in cui gli uomini e le donne avvertono l’oppressione o l’emancipazione temporale da parte delle “tecnologie” (o meglio, della combinazione fra le tecnologie e il loro uso), per questioni storiche e sociali
- la valenza di un’innovazione può essere contrastante. Basta pensare, per esempio, al fatto che tecnologie che ci sembrano invalidanti per certe cose sono spesso state abilitanti. Ad esempio: se l’automobile è in declino nel mondo occidentale, per tutta una serie di argomentazioni, al tempo stesso è stata abilitante per le proteste delle suffragette in UK, per gli afroamericani in USA, per le persone che vivono nella campagna rurale. Allo stesso tempo, la diffusione dell’automobile,che in teoria dovrebbe facilitare la velocità degli spostamenti e quindi farci risparmiare tempo, fa sì che in alcune grandi città come Londra ci si muova oggi alla stessa velocità media di più di un secolo fa
- la valenza di un’innovazione è spesso sopravvalutata, se non la si colloca in prospettiva. Per esempio: si dice che la lavatrice e la lavastoviglie hanno ridotto il tempo dedicato ai lavori in casa. Ma in realtà non è successo, perché all’introduzione di questi due strumenti tecnologici sono seguiti svariati altri cambiamenti, come ad esempio il progressivo decremento delle persone che lavorano in case d’abitazione altrui come collaboratori domestici e il progressivo incremento degli standard rispetto ai risultati del lavoro domestico
- il valore della velocità ha molto più a che fare con i valori della vita nelle metropoli che non con la tecnologia fine a sé stessa
- il tempo non è una linea. Ci sono varie dimensioni temporali e varie estensioni del medesimo. Ragion per cui essere solo “qui e ora” non è un bene sempre. O meglio, ci sono vari modi di essere “qui e ora”. Un esempio bellissimo nel testo è quello di una donna che sta con sua madre in una casa di cura. Le tiene il braccio intorno al collo e la madre, che è molto malata e non ha esattamente contezza di è appoggiata a lei e sorride. La donna sta anche chattando con qualcuno, nel frattempo. Ebbene, è troppo facile giudicarla e dire: «non è presente! Vergogna!». In verità, il tempo che si passa prendendosi cura di qualcuno è molto lento, a volte, e quella donna, semplicemente, sta sperimentando due diverse dimensioni temporali, facendo contemporaneamente del bene a sua madre e a sé stessa.
«Troppo spesso», conclude l’autrice di questo saggio illuminante, «riflessioni critiche sull’impatto degli strumenti digitali, come se fossimo vittime di una crisi che ha bisogno di correzioni. Questo fa sì che diventi difficile formulare politiche di gestione del tempo alternative […] separate dall’emergenza della digitalizzazione, o dal suo coinvolgimento nei cambi temporali della vita sociale».
Il determinismo tecnologico, infatti, annichilisce la responsabilità individuale, le scelte, le modifiche, le migliorie che si possono imporre agendo come comunità; annichilisce anche il senso politico delle scelte tecnologiche, facendoci credere, appunto, che non ci siano alternative possibili al modo in cui le tecnologie si sono sviluppate.
È vero: quello per la velocità è un culto. È cool andare di fretta, essere tanto occupati, lavorare tanto, riempirsi il tempo con mille attività. Ma questo non è colpa della tecnologia: è parte della natura umana ed è anche una scelta che facciamo. Siamo noi a poter decidere come utilizzare le tecnologie e quindi quel che dovremmo fare è impararle al meglio, per utilizzarle come strumenti abilitanti anziché sentirci oppressi. Allo stesso modo, lo slow fine a sé stesso non è per forza buono. Può essere un ottimo brand per aggregare uno stile di vita e delle scelte ben precise. Che però non sono luddiste o negazioniste della contemporaneità ma sono, piuttosto, a favore di un uso consapevole di tutto ciò che abbiamo a disposizione, per modificarlo con l’uso stesso. Il che significa che non ha senso né chiedere l’accelerazione continua né predicare il rifiuto della velocità.
Ci vuole il tempo che ci vuole.
«C’è una discrasia fra l’immagine culturale della velocità e la sensazione comune di sentirsi sempre di corsa, affannati, ma questo potrebbe essere l’occasione per una tensione creativa. Tecnologie veloci e intelligenti danno un’opportunità senza precedenti per realizzare una società più giusta e più umana, se solo tenessimo a mente che la frenesia non è una funzione dei gadget, ma delle priorità e dei parametri che noi stessi fissiamo. Ma è anche il momento di contestare l’euforia generale per la velocità e l’impulso tecnologico per raggiungerla, sfruttando invece la nostra inventiva per avere il controllo del nostro tempo nella maggior parte del tempo».
Quello di Judy Wajcman è un saggio davvero importante, un contenuto anticorpo di quelli che, se lo introietti per bene, ti cambia radicalmente l’approccio rispetto alla contemporaneità.