Le community inattive

Metti che un cliente ti chiami e ti dica:

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«ho la sensazione che intorno alla mia offerta ci sia una community, vorrei propormi come punto di riferimento per permettere loro di incontrarsi».

Una proposta del genere significa che sei parecchio fortunato, perché hai un cliente sensibile, intelligente e competente; per non esagerare con la fortuna, però, facciamo che ha pochissimo budget, anche se vuole comunque usarlo per verificare questa sensazione e, se corretta, costruirci su.

Come approfondito nell’articolo sul social object, per attivare una community latente dobbiamo avere le idee chiare non solo su cosa mettere al centro ma anche sull’universo (linguistico e metaforico) che lo caratterizza.

Il primo passaggio, quindi, dopo averlo definito è un’analisi delle conversazioni spontanee, facendo particolare attenzione all’esistenza di un linguaggio specifico, di un gergo o di rituali condivisi anche da persone che non si conoscono.

Se, per esempio, io sono Bialetti e intuisco che c’è una community di persone caratterizzate dal piacere di fare il caffè con la moka (e non con le cialde) dovrò prima di tutto cercare di capire di cosa e come parlano le persone che amano non solo il caffè, ma il caffè con la moka.

Non è un’analisi della concorrenza, perché potrò decidere di proporre un nuovo spazio anche in presenza di altri ambienti sociali intorno allo stesso social object; è lo studio della terra di mezzo tra il linguaggio degli appassionati e la cultura aziendale, terra di mezzo che a volte può essere una terra di nessuno. In questo, caso qualunque sforzo facciate, le persone non riconosceranno l’azienda come un possibile padrone di casa e l’azienda non riconoscerà quelle persone come clienti.

Metti che Bialetti consideri il rito mattutino della “macchinetta” come un baluardo dell’Italia colta e intellettuale e che la tua analisi rilevi una preponderanza di “buongiornissimo caffè” tra gli appassionati della moka; è difficile immaginare un terreno comune tra la community interna dell’azienda (la prima community) e quella reale che usa un rito come ping relazionale più che come momento di riflessione e pensiero.

Metti invece che sia il contrario, cioè che per Bialetti il caffè sia un cialtronissimo momento di relax e per gli appassionati della moka che incontri il miglior accompagnamento alla lettura: invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia, la distanza tra questi due modi di vedere l’esperienza complicherà tantissimo la creazione di un mondo pensato per ospitare persone che interagiscono.

E allora che si fa?

Visto che gli ambienti sociali sono mutevoli e che a volte un intervento esterno, anche se top-down, muta le forze in gioco, io propongo al mio cliente non di rinunciare ma di fare un mezzo passo (che è sempre meglio di un passo falso): prima di lavorare per attivare la community, cioè per fornire strumenti di interazione diretta, usare servizi e contenuti uno a molti come catalizzatore di comportamenti silenti.

Siamo nel regno dei servizi che avvicinano le persone al brand, ma non tra loro. I servizi preferiti dalla maggior parte delle aziende, diciamocelo.

È un interregno in cui potremmo restare parecchio, quindi facciamo una pausa e proviamo, ciascuno per sé, a rispondere a questa domanda: una community inattiva è ancora tale?