La moda slow

Ci siamo resi conto rapidamente di un fatto, da quando abbiamo creato il progetto Slow News. Il fatto è che le cose che hanno un nome e uno slogan facili diventano presto di moda. Inoltre, fra tutti gli attori che seguono un certo tipo di percorso, ce ne sono alcuni che hanno voglia, piacere e persino bisogno di fare rete. Altri, invece, che ballano da soli (o, per motivi di auto-narrazione, fingono di essere soli). Ciascuno trova e persegue la propria via, con differenze e estremi davvero interessanti. 

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Per esempio, Tortoise, un progetto che si definisce di slow journalism, proprio come noi, si è lanciato con un crowdfunding che puntava tutto sulla fama dei suoi quattro fondatori. Il crowdfunding ha avuto 2.530 sostenitori che hanno donato in tutto 539.035 sterline. Il che significa una donazione media di 213 sterline (circa 240 euro).È un prezzo molto alto che connota in maniera inequivocabile Tortoise: è un prodotto per le élite.

Ben diverso The Correspondent: la suspense per il crowdfunding di cui vi abbiamo parlato si è sciolta con un “happy ending”: più di 2,6 milioni di dollari raccolti, oltre oltre 46mila sostenitori per una donazione media che supera di poco i 50 euro. Le ragioni di questo straordinario successo vanno senz’altro analizzate, studiate e spiegate.

La differenza fondamentale fra questi due estremi, poi, è che Tortoise è completamente chiuso. The Correspondent invece si basa, coraggiosamente, sul modello paga quel che puoi. Potrei pagare anche un euro all’anno, per capirci.

È un modello sul quale stiamo facendo profonde riflessioni per il futuro di Flow, l’altra newsletter di Slow News, perché chiaramente risolve il problema di un certo tipo di esigenza per un giornalismo più “tradizionale” e meno “formativo” rispetto a Wolf: l’esigenza di raggiungere più persone e di non trasformare la questione dell’informarsi in una questione di classe.

Questa faccenda ha molto a che vedere con lo slow e con la necessità di trovare una definizione positiva al rallentare, che non sia semplicemente un andare-contro-qualcosa.

Jennifer Rauch, nel suo splendido lavoro Slow Media: Why Slow is Satisfying, Sustainable & Smart (Oxford University Press, 2018), identifica chiaramente lo slow come un qualcosa che non ha nulla a che vedere con la velocità. È un discorso che abbiamo fatto più volte, per esempio ai tempi del nostro lavoro di traduzione del Verification Handbook, un manuale che serve appunto per imparare a verificare quanto più rapidamente possibile gli user generated content in una situazione di emergenza o in cui è richiesta velocità (per esempio, nel coprire le fasi più calde di una breaking news).

Essere slow, piuttosto, è una questione di metodo.

Vuol dire – prendendo a prestito la definizione di Carlo Petrini per lo slow food – essere Good, Clean, Fair. Buono, pulito, giusto.

Vuol dire, cioè, se vogliamo riportare questi tre aggettivi al mondo del giornalismo slowi, essere accurati. Uscire con il tempo che ci vuole (per questo ogni tanto le uscite di Wolf singhiozzano, anche se lavoriamo sempre per essere quanto più precisi possibili nei nostri impegni con la community. Succede perché a volte la vita si intromette nella produzione e ci impedisce di avere i contenuti pronti). Vuol dire essere trasparenti. Affidabili. Intellettualmente onesti. Pronti a riconoscere l’errore. Vuol dire, per le aziende che riescono a lavorare davvero di slow journalism, pagare le persone il giusto. Vuol dire essere puliti, essere privi di interessi terzi. Avere come unico interesse, in altre parole, la bontà del prodotto per il suo pubblico di riferimento. Mica poco.

Tutto questo si può traslare, ovviamente, dal giornalismo alla produzione di contenuti di ogni genere.

Come ci ricorda Enrico Marchetto in un’intervista a proposito di Facebook, come operatori del settore (o anche solo come persone che hanno capito quanto sia importante la comunicazione, la creazione di contenuti) dovremmo puntare alla massima ecologia possibile dell’ecosistema nel quale viviamo e lavoriamo. Il modo per farlo, nell’era del content shock, è uno solo.

Immagine tratta da CeralyticsÈ rallentare. Fare meno e farlo meglio, sempre meglio.

Eppure, un’altra cosa che rileva Rauch nel suo libro è il fatto che lo slow sia diventato una moda, un trend, in alcuni casi addirittura un modo per ripulire il brand: una sorta di slow washing, simile al green washing.

Di rallentare nel giornalismo ha parlato – già nel 2012! – persino Arianna Huffington. Questo accadde anche se l’Huffington Post non era e non è esattamente un esempio di slow, visto che pubblica in quantità, sia sul sito sia sui social (nella versione italiana, mentre scrivo, conto 7 condivisioni su Facebook nell’ultima ora. Significa una condivisione ogni 8,5 minuti.

Di recente ho avuto un piacevole scambio epistolare per un’intervista con una giornalista che lavora per Flow. Non il Flow di Slow News, un magazine olandese che si occupa di mindfulness e, più in generale, di rallentare, rallentare, rallentare. Le scrivevo che per me l’essere di moda, l’essere un trend è l’esatto contrario dello slow.

Se è fatto perché di moda, se dobbiamo darci al digital detox perché il problema è il digitale, allora non ci siamo.

Essere slow significa, in qualche modo, avere un approccio altroalternativo. Non essere contro qualcosa, ma a favore di qualcos’altro.

Per questo, quel Good, Clean and Fair di Carlo Petrini dovrebbe accompagnarci ogni giorno. In effetti, questa storia del rallentare ha un qualcosa tipico dell’attivismo, al suo interno. Ed è un modo per cambiare – anche se solo in piccola parte – il mondo che ci circonda. Contribuire a farlo.

Non si può pretendere che siano le persone che non si occupano di contenuti, di comunicazione, di giornalismo, a migliorare ecosistemi e piattaforme pensate per la circolazione dei contenuti. Si dovrebbe pretendere, piuttosto, che a farlo siano gli addetti ai lavori. E in questo piccolo numero di Wolf, in ballo tra la filosofia e la pratica, c’è tutto quel che secondo me ci dovremmo ricordare.

(AP)