I dolori del Paywall

Nella presentazione e nel comunicato stampa che hanno diffuso i risultati di RCS nel primo trimestre 2016 non c’è traccia dei dati sull’andamento del paywall del Corriere della Sera. Gli unici dati relativi all’andamento delle testate online del gruppo riguardano i «daily & monthly unique browsers» registrati dai siti del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport e i ricavi pubblicitari online.

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Perché questa assenza? Difficile a dirsi, soprattutto se si considera che le ultime dichiarazioni rilasciate dai piani alti di RCS in merito al paywall erano state estremamente positive: «Il paywall sta andando bene, molto meglio delle aspettative, sono stati superati abbondantemente i 30 mila abbonati», spiegava proprio al Corriere l’amministratore delegato Laura Cioli il 28 aprile.

30mila abbonati, dati più precisi non si riescono ad avere. Eppure sarebbe molto utile capirci di più: di questi 30mila, quanti usufruiscono della versione promozionale a 99 centesimi al mese? E qual è la percentuale di rinnovi dopo la scadenza della promozione?

Quel che è certo, comunque, è che 30mila abbonati su un sito che fa registrare 40 milioni di browser unici al mese non sono un numero così significativo. Ancora meno significativo se si considera che il Sole 24 Ore – che il paywall l’ha introdotto (per la seconda volta) tre anni fa – ha 37mila abbonati nonostante il costo (minimo) sia esattamente il doppio di quello del Corriere: 20 euro al mese.

La sensazione, quindi, è che il paywall del Corriere non abbia sfondato. Anzi, ci si sarebbe potuto attendere che, almeno nei mesi di lancio, molte più persone fossero disposte a pagare meno di un euro per avere accesso illimitato ai contenuti del quotidiano di via Solferino. O forse no?

La domanda alla quale bisogna rispondere, quando si vuole far pagare per la lettura di articoli online, è sempre la stessa: stai offrendo contenuti che non è possibile trovare da nessun’altra parte? Nel caso del Sole 24 Ore la risposta è (in buona parte) positiva, soprattutto per quanto riguarda gli approfondimenti verticali su fisco, diritto, lavoro, ecc. ecc, che sono probabilmente materia molto preziosa per gli addetti ai lavori (che infatti per leggerli devono fare l’abbonamento da 30 euro al mese).

Il Corriere della Sera offre qualcosa del genere? Vediamo: per 9,99 euro al mese (dopo il primo mese di promozione) ho a disposizione l’accesso illimitato al sito, una newsletter mattutina con «la chiave di lettura dei fatti del giorno», due notiziari da pochi minuti (negli orari del telegiornale), l’archivio storico e una selezione di fotografie. Ok, adesso possiamo tornare alla domanda: il paywall del Corriere mi dà accesso a qualcosa che non posso trovare da nessun’altra parte? La risposta, a mio parere, è no. Tanto più che posso comunque leggermi 20 articoli gratuitamente al mese e poi cercare notizie e retroscena altrove.

Sul Corriere, però, vengono promessi anche «inchieste e reportage per approfondire e scoprire», personalizzabili in base agli interessi del singolo lettore. Ecco, questo è qualcosa per cui pagherei volentieri (se la qualità fosse elevatissima); il problema però è: dove sono queste inchieste e questi reportage? Sarebbero quelli che trovo alla voce «extra per voi» ?, e dov’è la possibilità di personalizzare?

Forse tutto ciò appare solo dopo che mi sono abbonato, ma per convincere qualcuno a pagare si dovrebbe mostrargli molto più chiaramente quali sono i plus di cui potrà usufruire. Prendiamo il caso più celebre e più riuscito di abbonamento, quello di Politico Pro (che costa molto, molto più di 10 euro al mese e che, assolutamente, offre contenuti che altrimenti è difficile ottenere). In questo caso capire dove stia il valore aggiunto in caso di iscrizione è facilissimo: è tutto qui, nella pagina in cui vengono descritti i 15 verticali specifici a cui posso abbonarmi (dalla comunicazione politica, al fisco, alla tecnologia, alla sanità, all’energia, ecc. ecc.) per avere approfondimenti e notizie esclusive.

Tra l’offerta verticale di Politico Pro e quella del Sole 24 Ore ci sono delle similitudini (per quanto l’offerta sia studiata su scala drasticamente diversa) e in entrambi i casi è chiaro quali siano i vantaggi riservati agli abbonati. La stessa cosa invece non si può dire del Corriere (nell’abbonamento a 10 euro non sono nemmeno incluse le copie digitali del cartaceo, che scattano solo a partire dai 25 euro al mese). Ma al di là del fatto che l’offerta del quotidiano di via Solferino non sembra essere stata studiata con la dovuta attenzione, è chiaro che per una testata generalista è difficile trovare un pubblico disposto a pagare; soprattutto quando i tuoi concorrenti offrono accesso illimitato e gratuito a contenuti molto simili.

A questa regola, c’è una vistosa eccezione: il New York Times. Tra il più noto quotidiano statunitense e il più noto quotidiano italiano c’è però una prima, enorme, differenza: la lingua. Il sito del Corriere può contare su una platea potenziale pari a 60 milioni di lettori (esagerando). Il New York Times può contare su un bacino di 1,2 miliardi di lettori. Una differenza sostanziale.

Proporzionalmente, quindi, i 30mila abbonati del Corriere non sono così pochi rispetto agli 1,2 milioni di abbonati digitali al New York Times. Il problema è che da una parte i ricavi oscillano nella migliore delle ipotesi tra i 300mila e i 600mila euro al mese; dall’altra si parla di oltre 15 milioni di euro al mese (dati di ottobre 2015).

Per una testata generalista come il New York Times, quindi, il paywall ha senso. Ma si tratta del quinto sito di news più letto al mondo e di una testata dal prestigio e dalla credibilità unica, che offre contenuti come il celebre pezzo Snow Fall e che manda i suoi giornalisti a passare venti mesi con una donna malata di Alzheimer per documentarne la vita.

Con le dovute eccezioni, quindi, il «muro» sembra essere funzionale per testate che si rivolgono a professionisti di un settore specifico (come nel caso del Sole 24 Ore e di Politico Pro) o magari nel caso di testate verticali e di nicchia, con lettori molto fedeli.

Restando nel mondo anglofono, personalmente prenderei in considerazione di pagare un abbonamento per una testata come Aeon; sulla quale trovo approfondimenti di grande valore su temi, principalmente, scientifici e tecnologici (ma anche psicologici, filosofici, ecc.). Aeon non è un verticale in senso stretto, ma un sito che si rivolge a una nicchia di, diciamo, «lettori forti». E in Italia? Di testate che offrono contenuti unici, in profondità, professionali e rivolti a una nicchia ben precisa me ne vengono in mente una manciata. Tra queste, personalmente, potrei considerare di pagare un abbonamento per leggere l’Ultimo Uomo, l’unico sito italiano dove riesco a trovare contenuti sul basket NBA di un certo valore (nota di trasparenza, collaboro con alcune testate dello stesso gruppo, ma non con l’Ultimo Uomo).

Ma allora perché ci sono così pochi esempi di paywall per testate di questo tipo? Probabilmente perché – se si vogliono far pagare i lettori – ha più senso puntare sul crowdfunding: uno strumento attraverso il quale si coinvolge il lettore anche da un punto di vista emotivo, si possono incassare le somme molto generose dei lettori fedeli che possono permettersi di versarle e non si crea una barriera che, per forza di cose, taglierebbe fuori una gran parte di lettori limitando la diffusione della testata (un caso perfetto, in questo senso, è quello di Valigia Blu: avrebbe ottenuto la stessa cifra attraverso il paywall?).

La sensazione, quindi, è che il paywall funzioni per grandi testate che offrono contenuti davvero specialistici (puntando sull’aspetto costi/benefici), mentre il crowdfunding può essere più funzionale per piccole testate di nicchia con lettori molto affezionati (puntando sull’aspetto emotivo/valoriale). Ma quale può essere invece la strada per i generalisti che vogliono svincolarsi dalla (comunque insufficiente) pubblicità e dall’ossessione per le pageviews e (adesso) videoviews?

Una soluzione, forse, potrà passare dall’adeguato sviluppo e diffusione di sistemi tipo Blendle (lo «spotify dell’informazione», che Wolf ha iniziato a usare per primo in Italia) e dall’abitudine a pagare piccole somme (e in un solo click) per leggere singoli articoli (purché di qualità). Ma su questo tema si potrà tornare in un’altra occasione.