Detox?

La stazione metropolitana Duomo, a Milano, è tappezzata di immagini di una campagna pubblicitaria di una nota marca di occhiali, la RayBan. Lo slogan è «Hai il coraggio di disconnetterti?», accompagnato da un generico «Unplug» e da un hashtag in lingua inglese (la campagna è internazionale): #ittakescourage.

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La campagna dura da parecchio. C’è anche il (bellissimo, per me) esperimento Open Your Heart, con quell’Eye to Eye che mi ricorda tanto Marina Abramovich.

A proposito di guardarsi negli occhi e di Marina Abramovich, se non hai mai visto il video «Marina meets Ulay», girato durante la mostra The Artist Is Present al MoMa, nel 2010, è proprio il momento di farlo.

Il tutto perché oggi parliamo (nuovamente) di «digital detox». Che, purtroppo, è già diventata una buzzword e, dunque, ha perso completamente tutta la sua forza e il suo significato.

Potremmo pensare che se persino un brand usa questo concetto per pubblicizzarsi siamo di fronte all’ennesima moda. Qualche giorno fa, Gianluca Nicoletti scriveva su La Stampa, in risposta a una lettrice che scriveva di volersi cancellare da Twitter e Facebook ma di non farlo per paura che poi le possa «mancare»:

«La frequentazione dei social media da parte di adulti è spesso discontinua, diciamo che va a fasi alterne ed è legata a episodi significativi della nostra vita concreta.  […] La fase compulsiva invece al contrario riempie i nostri vuoti emotivi, i momenti di particolare ansia nelle nostre relazioni, o quando proprio ci assale la tentazione del tempo neghittoso, che è il maggiore stimolatore di transumanze su tastiera».

E ancora:

«Io sono dell’idea che Facebook sia il corrispondente di un analgesico che ci portiamo dietro per scaramanzia, però la volta che lo dimentichiamo a casa è quella che ci assale il mal di testa. Perché mai infine compiere gesti estremi come il cancellarsi o cancellare i propri amici in massa? Sarebbe la prova di una nostra dipendenza e assomiglia troppo a quei fioretti legati alla castità, che in realtà servono solo ad accumulare lussuria. Secondo me abbiamo e avremo sempre più bisogno di “protesi” per gestire la nuova dimensione allargata delle nostre relazioni, di sicuro ci mancherebbe la possibilità di occhieggiare un po’ nelle vite altrui e di fornire al mondo barlumi più o meno ampi del nostro quotidiano esistere.

La mortificazione peggiore che possiamo infliggerci però è proprio il senso di colpa per questa nostra ansia di esistere anche nell’immaginario di altre persone, anche quelle che non frequentiamo nella vita concreta. Non ci danneremo certo l’anima per un po’ di autostima cercata in un like, un retweet, per degli apprezzamenti a forma di cuore a una nostra foto ben lavorata su Instagram».

Un tempo sarei stato molto d’accordo con Gianluca. Un tempo quando la pervasività di questi strumenti non aveva invaso drasticamente la mia vita di «lavoratore dell’informazione», amplificando i momenti di lavoro e distruggendo definitivamente il confine tra quando sono connesso perché lavoro e quando sono connesso perché mi rilasso e, di fatto, impadronendosi anche delle mie pause e del mio tempo libero.

Ma sono io che decido. Smetto quando voglio.

Sì, certo, come no.

È vero che, in un certo senso, non c’è nulla di male, eh. Ciascuno si crea le proprie dipendenze ed è libero di gestirle come meglio crede. Ma a noi, se siamo qui, interessano poco le parole ripetute come mantra e i luoghi comuni. Ci interessano, invece, analisi di problemi, strumenti e soluzioni.

Ora. Esiste lInternet addiction disorder. È un disturbo psichiatrico di controllo degli impulsi. Chiaramente ha delle forme gravi, acutissime. E delle forme molto, molto meno gravi ma non per questo meno disfunzionali. Ci sono anche dei test per capire se se ne soffre. Sono online. E la prima domanda apre un baratro.

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La settimana scorsa ho iniziato un nuovo esperimento che riguarda le notifiche. Per ottimizzare il mio lavoro e ridurre la quantità di tempo che dedico – o meglio, che penso di dedicare – al lavoro, ho deciso di azzerare tutte le notifiche che ricevo. Niente più pop up o suoni da alcun mezzo di comunicazione. Non Skype, non Slack, non iMessage, non la posta né Messenger di Facebook. Dal telefono ho già disinstallato da tempo tutte le app di social vari – tengo Telegram per un gruppo di lavoro, ma le notifiche sono spente, ho disinstallato completamente WhatsApp. Reinstallo le applicazioni solamente il giorno in cui faccio il mio corso di Social Media Journalism e poi le ri-elimino.

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Non solo. Ho anche provato a fare un esperimento su Facebook, ignorando sistematicamente i numerelli rossi lassù in cima, per una settimana.

Il meccanismo delle notifiche, di avere qualcosa sempre nuovo, infatti, ha due effetti sul nostro cervello. Il primo è quello del rilascio continuo di dopamina, in un loop stimolo-gratificazione che ci imprigiona e ci spinge a volerne sempre di più: che altre novità ci sono?

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Qual è il problema?

Il problema è che il nostro cervello si distrae, si stanca e non performa. Quindi passiamo più tempo del dovuto davanti allo schermo, anche quando pensiamo di «staccare» siamo bombardati da informazioni e ci stanchiamo di più, lavorando di meno, in maniera qualitativamente meno «sana» e meno produttiva.

Com’è andata?

Le prime volte che ho aperto Facebook ho rischiato di cliccarci per istinto. Il che ti dà la misura del gesto compulsivo, se vuoi. Della dipendenza. Della bulimia di cui soffro (soffriamo?) Il meccanismo che probabilmente conosci bene te lo riassumo così: dai, tanto uso Facebook per lavoro, lo apro un attimo. Solo un attimo, così posto anche quella cosa che… Oh, ci sono dieci notifiche, vediamole. Un commento. Rispondo. Mi hanno taggato. Ci vado. Rispondo. Un like. Un altro. Un evento. Ah, a questa devo rispondere perché è lavoro. Passano così dieci minuti. Solo dieci minuti. Che hai tolto ad altro e nessuno ti restituirà mai più. Cos’è che dovevo postare? Ah, già. Apro un attimo Facebook. Oh, c’è una notifica…

Cos’ho perso?

Assolutamente niente. Ripeto: assolutamente niente. Le comunicazioni importanti mi sono arrivate. Ho evaso la mia posta regolarmente e senza ossessioni, ho comunicato con chi volevo. Alcune persone (in particolare due clienti) un po’ più ansiose si sono rassegnate al fatto che avrei risposto con tempi più dilatati del solito. L’ho fatto, in maniera più esaustiva e attenta del solito. E non si sono aperte voragini nei siti internet dei miei clienti, non sono morte centinaia di persone, nessuno ha perso decine di migliaia di euro al secondo. Certo, bisogna anche scegliersi i clienti.

Ma se hai un business che può farti perdere decine di migliaia di euro al secondo non sono le notifiche delle OTT a salvarti. Sono le procedure, l’0ttimizzazione, la concentrazione profonda. Quello stato, cioè, che nella psicologia sportiva si chiama in zone.  La zona. Non solo. Sono meno affaticato e mi sento come quando si smette di fumare. Dopo un po’ non ne hai proprio più voglia. Anzi. Ti nausea un po’.

Quando ho cliccato, finalmente, sul mondo di Facebook con le sue 60 e più notifiche, non ho trovato nulla che fosse urgente da gestire. Le cose che mi interessavano davvero le ho già gestite. Ho evaso come al solito le 24 richieste d’amicizia, accettandole tutte, e poi appena è arrivato un +1 rosso ho evitato di cliccarlo. La prossima volta. Non c’è fretta.

Ma Facebook lo aprivi comunque. Cosa c’è di diverso?

Di diverso c’è il fatto che il mio cervello non riceve continuamente interrupt.

C’è che decido io quando e se aprire, consultare, interagire con determinati strumenti. Decido io quanti e quali contenuti devo processare.

In altre parole, non consento al flusso delle informazioni di raggiungermi in maniera arbitraria. Può raggiungermi solo quando lo decido io, in momenti che stabilisco e organizzo.

Le mail, per esempio. È utilissimo aprirle in sequenza e procedere in uno di questi due modi:

  • gestirle se richiedono meno di due minuti
  • annotare quel che si deve fare/rispondere se richiedono una risposta articolata.

Non si passa da un compito all’altro in maniera compulsiva. Non ha senso, non serve e finisce che dopo un po’ ti ritrovi a vagare fra le tab del browser, aprire di nuovo Facebook e i dieci minuti sono diventati mezz’ora.

Ma i social non dormono mai

Perdonami la franchezza alla romana: e sticazzi?

DeedStrategy

Riflettendo, nelle scorse settimane, sulla questione del detox, sulle mail che uccidono la produttività in azienda, sulle riunioni inutili, mi sono prima imbattuto in un libro che sembra un manuale di auto-aiuto e che invece è davvero perfetto per i lavoratori dell’informazione. Si intitola Organizza al meglio la tua vita. È un libro interessante per molti motivi ed è lì che ho trovato per la prima volta esplicitata la dipendenza da dopamina-delle-notifiche. Visto che con i miei alunni dello IED Comunicazione stiamo lavorando a una serie di progetti per verticalità – devo dire che la cosa impressionante è che anche i giovanissimi fanno fatica a uscire dalla loro comfort zone – ho pensato di mostrare loro come progetto una verticalità da zero, dal punto di vista della struttura, dell’architettura dell’informazione, dei contenuti, delle parole chiave e del manuale di stile, struttura e business.

Così, ho messo su DeedStrategy.com che magari diventerà uno dei miei «piani B», ma di sicuro sarà una verticalità che progetterò insieme ai miei studenti. Missione: Creare un punto di riferimento per facilitare l’organizzazione della propria vita (in particolare lavorativa) o della propria azienda (piccola, media, grande), eliminando le disfunzionalità e utilizzando in maniera virtuosa il digitale.

Nota

Un nostro abbonato, sul tema, ha consigliato – nel gruppo di conversazione su Facebook – Pmarca Guide To Personal Productivity (c’è un intero ebook da scaricare, iscrivendosi a una newsletter, volendo. È un archivio di varie altre guide).

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