Cos’è successo nel frattempo

Polarizzazioni pubbliche e umane

La conversazione che riguarda il ruolo del public editor nel giornalismo (e che, in realtà, tira in ballo questioni molto più ampie e profonde) continua. È, fino a questo momento, l’argomento più discusso in assoluto sul gruppo di conversazione di Wolf.

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Sono intervenuti anche i protagonisti della querelle da cui siamo partiti, ovvero Flavio Pintarelli e Anna Masera (public editor de La Stampa). Flavio aveva scritto un post che, nel titolo, parlava di epic fail di Anna nel suo ruolo di public editor. Dopo un confronto molto serrato nel gruppo di Wolf, Flavio ha deciso di cambiare quel titolo (che ora è ) e ha aggiunto questo cappello introduttivo:

«Edit: dopo la pubblicazione di questo post, grazie a Virginia Fiume che lo ha condiviso e mi ha invitato nel gruppo di Wolf, ho avuto un confronto diretto con Anna Masera e un gruppo di altri giornalisti e professionisti della comunicazione. Una discussione intensa, a tratti aspra, caratterizzata da tutti i tic della comunicazione digitale che come comunità di professionisti (mi ci includo con modestia) stigmatizziamo ma a cui facciamo fatica a sfuggire. Come gesto di buona volontà ho deciso di modificare il titolo del post, che riconosco strillato e poco adatto al dibattito, togliendo l’espressione epic fail. Non posso farlo dai tweet, ma confido basterà.»

Questa conversazione e i risultati che poi ha portato sono la dimostrazione della bontà di un confronto aperto all’interno di una comunità di persone che hanno in comune un interesse professionale.

Nell'immagine, la misurazione di Sociograph.io, uno strumento gratuito per verificare il livello di "engagement" di un gruppo o una pagina, gli iscritti più attivi, il gradimento di questa attività da parte degli altri iscritti e via dicendo. Sarà uno strumento oggetto d'analisi. Nota: nel numero dei commenti non considera le conversazioni "annidate" e quindi i commenti sono molti di più. Il post di Virginia da cui prende le mosse la conversazione è il più "interattivo" su Wolf.
Nell’immagine, la misurazione di Sociograph.io, uno strumento gratuito per verificare il livello di «engagement» di un gruppo o una pagina, gli iscritti più attivi, il gradimento di questa attività da parte degli altri iscritti e via dicendo. Sarà uno strumento oggetto d’analisi. Nota: nel numero dei commenti non considera le conversazioni «annidate» e quindi i commenti sono molti di più. Il post di Virginia da cui prende le mosse la conversazione è il più «interattivo» su Wolf.

È interessante anche il fatto che la conversazione si sia a tratti polarizzata, secondo le inclinazioni e i modi di vedere di ognuno, ha quasi sfiorato il flame (è umano!) ma poi si è ricondotta su binari più corretti e in effetti ha ottenuto anche risultati.

E poi ci siamo interrogati su una questione fondamentale. Che sarebbe questa. Nel 1981 il public editor del Washington Post smonta pezzo dopo pezzo l’inchiesta-reportage di una collega che, nel 1980, aveva vinto il Pulitzer proprio con il Washington Post. Inventandosi di sana pianta il reportage. Bill Green, il public editor, fece un’inchiesta interna e pubblicò la verità. Ecco. Si può fare il public editor così, in Italia? Oppure no?

Sul tema, abbiamo pubblicato una lettera fiction del public editor dell’internet tutto, scrivendo tutto ciò che il public editor del web dovrebbe poter dire ai suoi lettori

A margine di tutto questo, ho scovato un pezzo sul Washington Post del 1996 che ci fa tornare a parlare di umanità. Il pezzo si intitola Janet Cooke’s Untold Story. Quindici anni dopo, Cooke ha perso il suo lavoro e guadagna 6 dollari l’ora in un grande magazzini. Rilascia un’intervista a Mike Sager per GQ: i due erano colleghi al WP ed erano anche una coppia, e Sager era stato sospettato di averla aiutata.

Parte dell’intervista viene ripresa dallo stesso Sager e raccontata in un altro pezzo assolutamente da leggere, scritto per la Columbia Journalism University nella primavera del 2016 (ebbene sì: 35 anni dopo i fatti, questa storia è ancora di grande interesse e attualità). Che cosa spiega Cooke in questa intervista?

Nella sua versione dei fatti non ha inventato Jimmy per vincere il Pulitzer o per fare uno scoop. Un’impiegata del programma antidroga dell’Howard University le aveva raccontato la storia di un bambino di 8 anni che era stato curato lì. Cooke ne aveva parlato con Milton Coleman, caposervizio, in riunione (la riunione settimanale del Post, secondo Cooke, era una specie di «ghetto», lo chiama così). Coleman l’aveva definita una storia da prima pagina e le aveva detto di trovare velocemente il bambino. Lei non ci era riuscita.

«Milton continuava a dirmi di offrire totale anonimità alla fonte», ricorda Cooke. «Ad un certo punto, ho capito che avrei potuto semplicemente farlo succedere. Mi sono seduta e l’ho scritto».

Insomma: Janet Cooke si era sentita in qualche modo sotto pressione.

«L’influenza dell’errore di Cooke», scrive Sager nel 2016 «arriva fino al moderno giornalismo, come sangue nel sistema circolatorio, senza tralasciare alcuna area. Le differenze sessuali e razziali nelle redazioni. L’uso di fonti anonime. La responsabilità degli editor di verificare le storie dei reporter – chi scrive deve essere considerato colpevole fino a prova contraria? La responsabilità di chi scrive nel verificare le proprie storie. La pressione del lavoro sotto scadenza e dell’essere giudicati per il proprio lavoro. I pericoli del giornalismo letterario. I pericoli della fragilità umana–che responsabilità ha un’istituzione nell’andare oltre il curriculum o la psiche di una persona?»

La storia di Janet venne opzionata per un film: Sager e Cooke si sarebbero potuti dividere 1,6 milioni di dollari. Solo che il film non si è mai fatto, quindi non si può neanche dire che ci abbiano lucrato.

Cooke sostiene di aver passato gli ultimi 35 anni della propria vita con il desiderio di morire. Sager dice: «Conoscendola, scherza solo in parte».

In questa storia c’è davvero tutto: c’è il professionale e l’umano, c’è l’etica, c’è la passione per il lavoro, il rischio di lavorare sotto pressione e perdere la bussola, le conseguenze delle proprie azioni, la colpevolezza, la punizione. Abbiamo una serie di lezioni da imparare, come al solito. Il pezzo di Bill Green è una grande lezione perché non mette all’indice la colpevole Janet Cooke. Il pezzo di Bill Green è una grande lezione perché parla di

«totale fallimento del sistema».

A riprova di questo, il sindaco di Washington D.C. Marion Barry, subito dopo l’uscita del pezzo, dichiarò ufficialmente di conoscere Jimmy, il bimbo protagonista della storia inventata di Cooke (!) e di sapere che era ancora in cura. Poi ritrattò.

Alla fine della questione, dunque, Janet Cooke ha pagato per il suo errore. È l’unica ad aver pagato, nonostante il suo public editor avesse correttamente parlato di fallimento del sistema. Quel fallimento del sistema appare ancora evidente e in 35 anni non è cambiato nulla da giustificare trattazioni diverse solo perché è arrivato il digitale.

  • la velocità è (ancora) un valore e lavoriamo ancora sotto pressione
  • vendere (fare click) ad ogni costo è ancora un valore
  • i lettori continuano a essere i grandi assenti

Sono tutti e tre errori clamorosi che da queste parti cerchiamo di correggere, prima di tutto facendoci gli anticorpi.

Lettori maltrattati

A proposito di lettori maltrattati, un’altra questione ha polarizzato l’attenzione di una parte degli abbonati di Wolf – e non solo. I punti di partenza delle considerazioni sono: un pezzo su Emma Watson su Rivista Studio, un video editoriale di Merlo su Repubblica Angelina Jolie, la risposta di Raffaella Menichini a Merlo, sempre su Repubblica, infine un tweet di un caporedattore di Rivista Studio [e non di Repubblica come avevo erroneamente scritto].

Nell’editoria il cliente (cioè il lettore) è sempre maltrattato. È anche vero – come argomenta uno dei nostri abbonati – che de Majo non si scaglia contro tutti i lettori, ma contro alcuni, che si rifugiano dietro la logica critichi-allora-rosichi.

Una logica che, a onor del vero, è stata per anni alimentata da tutti coloro che hanno la possibilità di raggiungere ampie platee attraverso – per esempio – il mezzo televisivo o i giornali mainstream. E che ora si trovano in qualche modo vittime di quella stessa logica.

Al di là della necessità di instaurare con il lettore un rapporto un po’ diverso, qualificato, c’è da dire che la coppia di pezzi su Watson e Jolie lascia davvero interdetti.

Da ultimo, questa storia – insieme a quella del public editor – è un ottimo pretesto per andare a recuperare il famigerato sondaggio che fecero Stampa e Repubblica lo scorso anno. Ne parlammo nel numero 44 di Wolf in un pezzo dal titolo La fiducia, i sondaggi, l’impatto. Queste erano le nove domande del sondaggio.

  1. Avere la possibilità di cliccare la biografia completa del giornalista in ogni articolo firmato
  2. Avere i riferimenti del giornalista in ogni articoli firmato per contattarlo
  3. La geolocalizzazione dell’articolo attraverso una mappa cliccabile con località in cui si svolge la storia e il luogo in cui si trova il giornalista che ne scrive
  4. Mettere in ogni articolo i link alle fonti e ai documenti originali
  5. Sapere chi ha rivisto l’articolo
  6. Sapere chi ha titolato l’articolo
  7. Sapere chi e quanti altri hanno collaborato
  8. Avere un modulo per segnalare correzioni e critiche
  9. L’accesso allo stato patrimoniale della testata e l’elenco dei suoi azionisti

Sono tutte condizioni che oggi, a bocce ferme e dopo le utili conversazioni che si sono sviluppate nella comunità di abbonati di Wolf, possiamo definire come non necessarie e non sufficienti per garantire un giornalismo di qualità.

Ancora una cosa va detta – questa aggiunta mi è stata suggerita dai lettori di Wolf – De Majo ha ammesso che poteva twittare diversamente.

Questo significa una sola cosa: bisogna parlarne, confrontarsi, analizzare. Sempre.

Donne dell’est

È il caso social di ieri. E infatti non vale nemmeno la pena di dedicar troppo tempo alla questione. Il programma condotto da Paola Perego è stato chiuso. La sensazione fra gli addetti ai lavori è che l’incauta mossa degli autori del programma sia stato un pretesto ideale per chiudere un contenitore che faceva ascolti imbarazzanti. Come quel sondaggio lì che probabilmente hai visto.

Il tema, però, dovrebbe essere un altro. Ovvero: come si è arrivati a questo punto. Com’è possibile che l’intrattenimento della Rai sia ridotto così. E dunque bisognerebbe ripensare tutto da capo. A partire da quel filo conduttore che lega tutto quel che produciamo su Wolf: contenuti e lettori.

Generalisti e non

Pubblicato con un titolo fuorviante, un pezzo su Business Insider Italia riprende i dati di una ricerca di Sprout Social che comunque parte da un presupposto molto chiaro. Facebook è di tutte le generazioni, è il mainstream.

In altre parole, Facebook è diventato una piattaforma generalista. Solo che la storia della televisione dovrebbe insegnarci alcune cose. A partire dal fatto che il pubblico generalista non esiste più (non è mai esistito) e che, esattamente com’è successo con la televisione generalista si frammenterà. Quando abbiamo analizzato gli ascolti di Sanremo abbiamo visto che il calo degli ascolti del Festival va di pari passo con quello degli ascolti dei programmi più visti sulla generalista (sebbene draghi ancora una decina di milioni di persone davanti ai teleschermi). Bene. Non c’è alcun motivo valido per cui non accada anche con le piattaforme social.

Facebook è generalista, le altre realtà emergono, si fanno strada, si ritagliano i loro pubblici.

Esattamente come in tv in Italia c’è spazio per Rai, Mediaset, La7 e per le piccole tematiche, allo stesso modo nell’universo dei servizi per reti sociali digitali c’è spazio per altre realtà.

Così come la fruizione dei programmi televisivi è rimasta sostanzialmente quella di un tempo per chi aveva quel tipo di abitudine ed è «cambiata» per chi ha imparato a farsi il proprio palinsesto, allo stesso modo la fruizione dei contenuti pubblicati troverà vie alternative a Facebook.

È così che bisogna guardare il grafico della penetrazione per fasce d’età.

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Ed è per questo motivo che dobbiamo guardare con interesse alle realtà che emergono e a quelle che si consolidano, a quelle generaliste e a quelle alternative.