Bignami per (convers)azioni

Si può fare profitto senza tracciare le abitudini di navigazione delle persone? Secondo il CEO di DuckDuck Go – motore di ricerca molto amato da una fetta di abbonati di Wolf – la risposta è sì. Ma è quello che vi direi anch’io delle newsletter a pagamento, per dire. Battute a parte, DuckDuck Go è stato lanciato a Settembre del 2008 ed è ancora operativo, il che, come sappiamo, è una metrica sufficiente per dire che è sostenibile.

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Perché DuckDuck Go è amato?

Perché non traccia la tua navigazione, ti offre dei risultati totalmente anonimi e non ti profila.

Questi sono i dati di traffico che il motore di ricerca rende pubblici. 12 milioni di ricerche al giorno. Sembra un numero spropositato? Bene. Google ne gestisce 5,2 miliardi al giorno.

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È vero che abbiamo sempre detto che le metriche quantitative non sono l’unica cosa che conta. Ma in questo caso la differenza è talmente soverchiante da farci capire per quale motivo, quando si parla di SEO, pensiamo a Google e non a DuckDuck Go o ad altri motori di ricerca.

Non solo. Il momento di crescita massima per DuckDuk Go è stato, ovviamente, subito dopo le rivelazioni di Snowden a proposito dei programmi di spionaggio della NSA. In quel contesto, il motore di ricerca ha fatto registrare una crescita notevole, del 600% dal 2013 al 2015.

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Nella fase di massima crescita, fra il ’98 e il ’99, Google fece registrare una crescita del 17.000% (sì, diciassette milioni di volte il traffico nel confronto anno su anno). Ovviamente quel tasso di crescita spaventoso è sceso. Ma ancora oggi Google cresce anno dopo anno del 10%.

Il confronto in termini di uso di massa è improponibile.

Sul mercato italiano, poi, purtroppo, DuckDuck Go non è particolarmente efficace.

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E non lo dico perché non premia «me», sia chiaro. Ho cercato «piano editoriale», la mia «query intention» dovrebbe essere molto chiara. Invece mi offre come primo risultato un piano editoriale social dell’ennesima realtà che ti propone i «5 step da non perdere».

Ecco perché non lo uso. Perché io lavoro essenzialmente sul «mercato» italiano.

È vero: non mi traccia. È vero. L’uso di DuckDuck Go andrebbe favorito e aiutato proprio per questo.

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Non c’è alcun dubbio che sia uno strumento importante e che il web avrebbe bisogno di realtà come questa. C’è da capire se il suo modello di business, basato esclusivamente su ads e affiliazioni e su donazioni, lo può rendere sostenibile sul lungo periodo. Può diventare (in gran parte è già) un ottimo motore di ricerca di nicchia. Ma al momento essenzialmente per le ricerche in lingua inglese.

Youtuber sull’orlo di una crisi di nervi

Da un po’ di tempo a questa parte – era nell’aria, ora si sta concretizzando – Youtube ha cominciato a stringere i cordoni della borsa. Il mese scorso ha chiuso la possibilità di monetizzazione ai canali che non hanno almeno 10mila visualizzazioni.

Contestualmente, dopo le polemiche sulla monetizzazione su alcuni contenuti (alcune aziende inglesi avevano ritirato i loro investimenti perché non gradivano di veder i loro marchi accostati a video troppo estremi), a Google hanno deciso di stringere anche i termini delle condizioni per accedere ai programmi di monetizzazione. Così, contenuti troppo «per adulti» o con turpiloquio o simili non possono più avere la pubblicità.

Gli Youtuber seguono PewDiePie (uno che ha un canale con 50milioni di iscritti!) e la chiamano Adblocalypse.

Il risultato è: tonnellate di video in cui si grida alla morte dello youtubing.

Non ultimo quello di The Show, che in realtà, chiedendo una «donazione» (nome sbagliatissimo) sta rivelando un cambio di modello di business.

Sempre PewDiePie ha fatto un lunghissimo panegirico del modello di business basato sulla pubblicità su YouTube. Lo ammette lo stesso PewDiePie, ma te lo dico per sicurezza: il discorso di PewDiePie è «biased». 🙂

Qual è il punto?

Il punto è che questa chiusura dei cordoni della borsa, purtroppo, era ovvio.

E ora gli Youtuber sono di fronte a un vero e proprio dilemma. Qualcuno di loro continuerà a guadagnare (anche bene) con la pubblicità. Qualcuno no. Ma quanto durerà per quelli a cui funziona ancora? E quanti reggeranno il confronto con la dura e vera realtà?

La dura e vera realtà la possiamo riassumere così:

  • esiste Youtube
  • qualcuno comincia a fare video, capisce che potrà monetizzare e si crea un piccolo impero (vedi PewDiePie)
  • molti Youtuber imitano i capostipiti  producono tonnellate di video
  • per una fetta di loro, diventa un lavoro e una fonte di reddito
  • gli Youtuber diventano tanti, così come i loro video: si fanno concorrenza fra loro, imitandosi
  • la concorrenza si fa spietata
  • la pubblicità si spalma su tutti gli Youtuber finché conviene a tutti (gli inserzionisti e Youtube in primis, i produttori di contenuti in seconda battuta)
  • il mercato mostra i primi segnali di flessione
  • gli inserzionisti vogliono profilazione reale

E qui arriva il 2017. Quanti Youtuber sono in grado di contare su fan talmente fedeli da essere disposti addirittura a pagare per vedere i contenuti dei loro beniamini che, fino a questo momento, hanno seguito gratis (probabilmente fregandosene dell’advertising proprio come in televisione?). Quanti doneranno per video che altri possono vedere gratis?

Lo vedremo.

Ma è molto difficile iniziare a farsi pagare se non sei stato a pagamento da subito.

Il punto cruciale sta a monte. Non bisognerebbe arrivare al punto di farsi suggerire un cambio di modello di business dalla piattaforma (non tua) che hai scelto per pubblicare i tuoi contenuti.