Le community latenti

Se “le community non sono software” ma sono “gruppi di amici che ancora non si conoscono” come faccio a crearne una? È molto semplice: non puoi. Quello che puoi fare è creare le condizioni perché persone apparentemente diverse tra di loro si riconoscano come simili, si incontrino ed entrino in relazione, anche in tempi, luoghi e modi diversi da quelli a cui siamo abituati.

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Fermiamoci un attimo sul linguaggio. Non puoi creare una community da zero. Puoi progettarla – community design – puoi farla crescere – community building – puoi gestirla – community management. Per fare queste tre cose, che sono sequenziali lungo una linea temporale, ma non tappe obbligate (in molti casi si può partire direttamente dall’ultima, se non saltarla), hai bisogno di individuare e riconoscere un bisogno latente, quello di incontrare e confrontarsi con altre persone che, giusto per citare un paio di community difficilissime da vedere all’inizio, lavorano a maglia, fanno yoga o corrono.

Per questo ti invitavo a fare molta, molta attenzione al mondo che ti circonda e a tutto quello che tu consideri “strano” e “stranamente diffuso”. Assomiglia all’accorgersi di una crescita esponenziale, cioè di qualcosa che tipicamente si vede solo quando è esplosa. Le community latenti sono composte da persone che amano o fanno qualcosa che la loro rete sociale trova strano, incomprensibile o non poi così importante. Per questo appena trovano qualcun altro con lo stesso interesse si riconoscono e nasce spontaneamente una relazione molto forte e stabile. Come scrivevo in World Wide We nel 2010:

«Quando diciamo che la community esiste già è perché il legame deve esistere in potenza, non può essere creato dall’alto. In questo senso le community nascono sempre dal basso, anche quando le propone un’azienda: la differenza la fa la capacità di individuare e riconoscere il legame che coincide con gli obiettivi aziendali, attivandolo. Le community costruite intorno a legami inesistenti o irrilevanti falliscono, a prescindere da chi le propone. Fareste amicizia con qualcuno solo perché usa il tuo stesso spazzolino? È per questo che una qualsiasi strategia di social media deve partire dall’analisi della realtà circostante per individuare le community latenti, e non, collegate o collegabili ai propri prodotti o alle proprie tematiche di interesse. La differenza tra un progetto che funziona e uno che non decolla non è la tecnologia: è la capacità di farsi interprete di un bisogno sociale latente e soddisfarlo. Per impostare questa strategia è importante conoscere bene le dinamiche sociali tipiche degli ambienti digitali, meglio se per esperienza personale. È importante capirle».

Perché latenti? Perché non hanno ancora un luogo o un tempo o un modo di elezione per incontrare i propri simili. Perché non sanno neanche di avere dei simili, abituati come sono a essere gli unici interessati a quel qualcosa di specifico. Oppure perché questo luogo-tempo-modo esiste solo nella realtà fisica, magari distante, scomodo, impraticabile. Prova a immaginare, per un minuto, la vita di un cosplayer a Taranto nel 1985; probabilmente non aveva neanche un nome per la passione di cucirsi a mano i vestiti del suo supereroe preferito. Prova a immaginare come è cambiata la vita di questa persona quando la rete gli ha permesso di parlare con altro cosplayer. Prova a immaginare come è cambiata quando ogni anno a Lucca Comics puoi incontrare le persone con cui hai parlato, finalmente indossando l’abito giusto, quello che ti rappresenta davvero.

È per questo che tendiamo ad associare le community a Internet, perché prima di Internet era faticosissimo frequentarle, ma c’erano.

Il CAI, i circoli degli scacchi, le serate di bridge, il club del libro. Ce n’erano anche di fasulle: credo che il mio interesse per le community sia nato in seguito alla delusione provata quando da bambina ho scoperto che “Il Club di Topolino” non era un vero club, ma solo una specie di medaglione e poco altro.

Nell'immagine, una pagina del "Club di Topolino"
Nell’immagine, una pagina di Topolino con la descrizione delle attività e le istruzioni per diventare parte del “Club di Topolino”

Io non ho mai mandato “lire 300 di francobolli” ad Arnoldo Mondadori, perché la paura di ricevere altre tessere (e una penna BIC) mi aveva paralizzato; per non parlare della possibilità di diventare Ispettore, quando io volevo solo parlare con altri bambini del perché c’erano così poche storie di Macchianera e di Paperinik.

Sempre in World Wide We dicevo

“In una parola, il lavoro di community design consiste nell’individuare una community latente e nel fornirle gli strumenti per diventare “attiva”,

cioè per creare relazioni libere e spontanee con gli altri. Una via di mezzo esiste, e la definiamo community “inattiva”: le persone che si riconoscono come simili non hanno rapporti tra di loro, ma solo con il sito che si propone come punto di raccolta (per esempio registrandosi senza poter poi comunicare in pubblico). Una specie di coitus interruptus.”

Il Club di Topolino era un’enorme community latente che, per quello che ho visto io (ma sono curiosa di sentire le storie dei più giovani), è sempre rimasta inattiva.

Progettare una community significa questo: vederla, capirla e permettere alle persone che ne fanno parte di incontrarsi. La forma dell’esperienza dev’essere strettamente legata al tipo di interesse, ma oggi possiamo dare per scontato che un passaggio da una forma di interazione digitale sia sempre gradita e necessaria, in alcuni casi solo per fare altro (andare a sciare insieme), in altri per parlare di quello che si fa (i libri letti) o che interessa (le elezioni americane, il campionato di calcio).

Le testate, su qualsiasi medium, sono community naturali. Alcune sono community fortissime, a volte grazie alla capacità del direttore di entrare in relazione con i lettori, altre per la forza stessa del brand. Altre sono community più deboli, ma comunque esistenti. Il rapporto tra testate e community rispecchia il – difficile – rapporto tra giornalisti e lettori: apparentemente naturale, nella pratica difficilissimo. Io leggo, ascolto, guardo, in una parola mi (in)formo con te e quindi condivido un linguaggio, un mondo, uno sguardo con tutti gli altri. È naturale voler parlare con gli altri e soprattutto con i giornalisti, ma questa naturalezza non lo rende comunque possibile (per ragioni che approfondiremo).

Per fare un esempio di casa, Wolf è una community identificata grazie a una proposta di contenuti e di valori legati a quei contenuti. La community latente di Wolf era quella delle persone per cui “il lavoro va pagato” e “gli strumenti non bastano”.

È una community molto più ampia di quella effettivamente aggregata, perché abbiamo saltato un passaggio, cioè chiuso – con il gruppo Facebook – i recinti troppo presto. Entrare in un gruppo è una soglia da attraversare, per questo nei prossimi mesi la legheremo all’ingresso vero e proprio nella community di chi permette a Wolf di vivere, contribuendo con iscrizioni e contenuti.
Per far crescere il numero di persone raggiunte faremo salire di un livello l’attivazione, usando di più la pagina Facebook: aperta, meno impegnativa, più adatta a trasformare la latenza in relazione (un like è una soglia inferiore all’ingresso di un gruppo).

Come fare a capire la differenza tra uno spazzolino da denti e un oggetto per noi altrettanto irrilevante, ma per tanti invece emotivamente carico, come un ferro da calza? Devi sviluppare un settimo senso, quello per i “social object”, cioè gli ingredienti dell’esperienza quotidiana che per un certo numero di persone – un numero sufficiente a farle sentire non più sole – fanno la differenza. Un settimo senso che in parte è un talento naturale, in parte può essere sviluppato e raffinato.