Virtual, ventitré anni dopo

È bastata una foto – piuttosto alienante, per quanto epocale – condivisa da Mark Zuckerberg su Facebook per far diventare la realtà virtuale di nuovo una buzzword. Di nuovo, perché ci hanno già pensato la fantascienza e un’ondata di grande interesse negli anni ’90.

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Virtual

Su Gli stati generali, un abbonato di Wolf. che ha già scritto per noi su Adblocker & co., Andrea Signorelli, titola un pezzo, giustamente, Il ritorno della realtà virtuale. Andrea ricorda che nel 1995  «dopo una enorme campagna pubblicitaria», uscì il Virtual Boy della Nintendo.

La console resistette sul mercato per un solo anno, vendendo in totale 700mila esemplari. Le ragioni dell’insuccesso si capirono subito: la realtà virtuale era solo nel nome. Una volta indossato il casco, il giocatore si trovava alle prese con dei normalissimi giochi in 3D (e il 3D dell’epoca era cosa assai diversa rispetto a quello di oggi); giochi che peraltro erano in due colori, in rosso e nero, in un’epoca in cui, per capirci, era già uscita la prima PlayStation.

I miei ricordi a proposito della realtà virtuale, però, sono addirittura precedenti. Lasciamo perdere la fantascienza, dunque, parliamo di editoria.

Edizioni Wilson

Nel 1993 venne fondata, quindi stampata e messa in distribuzione come mensile (11 numeri annuali, per quattro anni) la rivista Virtual, il cui sottotitolo era: Mensile di realtà virtuale e immagini di sintesi.

Purtroppo online si trovano difficilmente tracce di questa esperienza editoriale, che oggi sarebbero quantomai preziose.
Grazie al prezioso lavoro di archiviazione di archive.org (mai troppo lodato), ho recuperato questa intervista alla direttrice.

1993 significa che internet era nel mondo dei sogni, per come lo conosciamo. E infatti Grassini, in quest’intervista, diceva:

«Quando ho fondato Virtual, nel 1993, il dibattito sul virtuale si concentrava molto sugli aspetti sociali e filosofici. Internet era ancora poco conosciuta e dunque proprio sulla realtà virtuale convergevano tutte le aspettative sui cambiamenti radicali che la tecnologia avrebbe portato nella nostra vita. Da allora il panorama è cambiato: la realtà virtuale è diventata una tecnologia come altre, le sue applicazioni specifiche e le discussioni sugli aspetti sociologici e filosofici si sono concentrati su Internet e in particolare sull’evoluzione delle «comunità virtuali». L’ambito in cui assistiamo ancora oggi a interessanti sperimentazioni sul concetto di spazio virtuale è quello artistico: penso ad esempio ai lavori di Maurice Benayoun, oppure di Monika Fleischmann».

Probabilmente qualcosa di quei due artisti hai avuto modo di vederla. Comunque, qui ci sono alcune opere di Benayoun. È un sito in cui c’è da perdersi, quindi fossi in te me lo metterei fra i preferiti. Lo stesso dicasi per Fleischmann.

Collezione

Riscoprendo, mentre scrivo questo pezzo, la mia collezione di Virtual, ecco che mi rendo conto di aver letto Antonio Caronia nel 1993, quando ancora non sapevo che fosse Antonio Caronia. Teneva una rubrica che si chiamava Il filosofo e la farfalla (di seguito, una sua illuminante lezione, tutta da ascoltare nonostante il pessimo audio).

Nicchie

Pensa: stiamo parlando davvero di un altro mondo. Ma molto concreto. La realtà virtuale era «di moda», ma era più che altro una moda «socio-filosofica». Nonostante questo c’era chi, nel nostro Paese, ne faceva una pubblicazione verticale. Un prodotto che, pur cambiando molto (nel frattempo il sottotitolo si spostava verso storie digitali e via via si abbandonava la realtà virtuale come elemento portante), sarebbe sopravvissuto fino al 1999. Sei anni.

Oggi un nuovo prodotto editoriale (o che vive di contenuti) che sopravvive per sei anni ci sembra quasi un dinosauro (quando penso che Blogo ha 12 anni mi sembra che abbia attraversato un’era geologica). E un prodotto editoriale da edicola che proponga articoli tipo «Cybermilitanti – Digito ergo sum» (Caronia) o «Il sogno di un teatro totale» (Fausto Colombo) o conversazioni tecnologico-filosofiche facciamo davvero fatica a immaginarcelo.

Su Mediamente, sito Rai, si trova ancora un’altra intervista a Grassini del 1995. Meglio archiviarla, prima che sparisca anche quella.

«il mondo delle reti di Internet, anche questo è un argomento che in questi mesi ha incontrato parecchio interesse sulla stampa; Internet, questa rete che collega computer collocati in varie parti del mondo e crea autentiche comunità virtuali, cioè insiemi di persone che si ritrovano all’interno di questo spazio, dentro la rete per incontrarsi, discutere, scambiarsi i messaggi di posta elettronica o esplorare varie realtà. Sono tutti mondi in un certo senso collegati a quello della multimedialità, che dà la possibilità di avere immagini e testi sul proprio computer e di interagire con questi; sono unificati dall’impiego del computer non più come strumento di lavoro ma come strumento di comunicazione che, quindi ci consente di esplorare questo mondo virtuale e di utilizzarlo per i fini più diversi. Perciò abbiamo utilizzato il nome Virtual ma con l’idea non soltanto di indagare la realtà virtuale vera e propria, ma tutte le tracce di virtualità che ci sono nella nostra vita quotidiana; adesso si parla di autostrade informatiche, di possibilità di avere il computer come strumento per fare tutto, di divertirsi, comunicare per una serie di attività alle quali non ci si aveva pensato, quando il computer è stato inventato».

C’era già, forte, il senso di comunità. Nel numero 13 del 1994, quando in copertina si titolava «Alla scoperta di INTERNET – Il boom della rete in Italia», nell’editoriale si leggeva, fra l’altro:

«Chi si collega con Internet è mosso sì dalla curiosità, dalla voglia di esplorare un continente sconosciuto, ma cerca il contatto, lo scambio «reale» con una comunità».

Non è che i termini della questione siano cambiati poi tanto.

Primo numero

Nel primo numero di Virtual ci si interrogava per capire se la realtà virtuale avrebbe cambiato le nostre vite. C’erano gli ottimisti, gli apocalittici, gli scettici. Eppure si pensava che si fosse già di fronte a un cambiamento epocale: «Io credo che la realtà virtuale rappresenterà il più grande sviluppo nella storia dell’umanità», diceva James Graham Ballard. «Sarà in grado di alterare anche le modalità fruitive di evasione», gli faceva eco Gianfranco Bettetini, «ma non potrà modificare i punti di riferimento fondamentali dell’uomo, a meno che non sia lui a lasciarsi trasformare, accettaando di immergersi acriticamente in questo mondo artificiale».
Per Charles Grimsdale (fondatore di Division Limited, società inglese che si occupava di realtà virtuale) «l’influsso sul grande pubblico resterà molto probabilmente limitato all’intrattenimento».
Michael McGreevy faceva forse l’osservazione più interessante: «Questa tecnologia ha un enorme potenziale di educazione e sarà probabilmente in grado di migliorare e aumentare le possibilità di partecipazione e il livello di discussione all’interno della società. Ma a una condizione: che siano chiamate a contribuire al suo sviluppo anche persone con una formazione in scienze sociali e dell’educazione, dotate di una preparazione che vada ben al di là della tecnologia in se stessa».

«Sono convinto», chiudeva McGrevy, «che quello che accadrà nel prossimo futuro avrà ben poco a che fare con la tecnologia pura e semplice».

Chiusa perfetta: il creatore del progetto Virtual Environment Workstation presso il centro di ricerca NASA non poteva sapere che sarebbe arrivato Facebook, ma aveva fatto la profezia più azzeccata.

Ventitré anni dopo

Zuckerberg da tempo promuove le attività relative agli Oculus Rift, gli occhiali per la realtà virtuale della start up Oculus, che Facebook aveva acquisito nel 2014.

La scommessa di Zuckerberg? Far diventare la realtà virtuale il prossimo social media. Questo cambierebbe drasticamente anche la fruizione dei contenuti così come li concepiamo. Non parliamo del giornalismo.

Ce la farà?

Questione d’economicità

La «rivoluzione digitale» ha avuto una caratteristica essenziale in tutti gli ambiti: ha abbattuto le barriere d’ingresso alla produzione di contenuti. Basta pensare alle telecamere digitali, che hanno dato la possibilità a molti di fare cinema o televisione. Basta pensare alla possibilità di creare contenuti online. Come questo, con tutte le difficoltà del caso ma senza alcun costo legato alla distribuzione cartacea, per esempio. La realtà virtuale può diventare una rivoluzione analoga?
È davvero difficile a dirsi. Perché c’è una cosa dalla quale non si può prescindere. L’esperienza immersiva deve essere totalizzante, ricca e oggi è davvero difficile immaginarsi come l’output dei software di gestione di realtà virtuale possa diventare, un giorno, alla portata di tutti per creare nuovi mondi in cui immergersi.

Fare altro

C’è un altro problema: mentre sei nella realtà virtuale, difficilmente puoi fare altro nella realtà «reale». Su Facebook – che in fondo è un mondo virtuale in 2d – puoi fare altro. Così come al telefono. Devi staccare da una parte e attaccare dall’altra e viceversa. Irrazionalmente, questo dover scegliere se stare qui o lì mi ha ricordato per due distinti motivi Infinite Jest, romanzo di David Foster Wallace. Il primo è questo passo, che spiega il fallimento delle videotelefonate (semplificando: se videotelefoni, intanto non puoi fare altro e devi concentrare tutta la tua attenzione sul tuo interlocutore. Ma il passo che riporto di seguito è molto più bello).

«La buona vecchia conversazione telefonica tradizionale solo audio consentiva di presumere che la persona dall’altro lato stesse prestando un’attenzione completa alla telefonata, e al tempo stesso faceva sì che tu potessi distrarti quando ti pareva. […] Una conversazione tradizionale solo vocale permetteva di immergersi in una specie di fuga semiattenta, ipnotica quanto il viaggiare in autostrada; mentre si parlava si poteva guardarsi intorno, scarabocchiare, darsi una sistematina, levarsi i pezzettini di pelle morta dal bordo delle unghie, comporre haiku sulla rubrica telefonica, mescolare qualcosa sui fornelli; si poteva perfino condurre una conversazione parallela interamente separata con un’altra persona nella stanza usando il linguaggio gestuale ed espressioni facciali esagerate, e tutto questo dando sempre l’impressione di essere attentissimo a ciò che diceva la voce dall’altra parte del telefono. Eppure anche mentre si divideva l’attenzione fra la telefonata e ogni altro genere di piccola cosa, in qualche modo non veniva mai in mente che l’attenzione della persone con cui si era al telefono potesse essere scarsa come la nostra.

Durante una telefonata tradizionale, per esempio, mentre si stava eseguendo, diciamo, un attento esame tattile del mento in cerca di brufoli non si era in alcun modo oppressi dal pensiero che l’altra persona al telefono potesse magari a sua volta dedicare una buona percentuale della sua attenzione all’esame tattile del suo mento. […] Questa illusione bilaterale di attenzione unilaterale era gratificante in modo quasi infantile, su un piano emozionale: si giungeva a credere di poter ricevere la completa attenzione di qualcuno senza doverla ricambiare. Con l’oggettività del senno di poi questa illusione appare arazionale, quasi letteralmente fantastica: sarebbe come pensare di poter mentire e al tempo stesso aver fiducia negli altri.

La videotelefonia rese questa fantasia insostenibile. Chi chiamava doveva mettere insieme la stessa calorosa e intensa espressione d’ascolto che usava negli incontri di persona. Coloro che chiamavano e, per inconscia abitudine, soccombevano a un distratto scarabocchiare e all’aggiustarsi le pieghe dei pantaloni finivano con l’apparire scortesi, assorti o puerilmente infatuati di sé. Chi, ancora più inconsciamente, si strizzava i foruncoli o si esplorava le narici trovava espressioni inorridite sui volti di chi lo vedeva. Il tutto si risolveva in uno stress videofonico».

Il secondo motivo per cui mi ha ricordato Infinite Jest è l’intrattenimento spinto all’ennesima potenza. Spoiler: c’è il rischio che non finisca mica tanto bene.

Second Life

Se da vent’anni e più si parla di realtà virtuale senza che si trovino spazi per applicazioni concrete per il grande pubblico, se ha fallito anche un fenomeno come Second Life che, secondo alcuni doveva distruggere le interazioni social dal vivo (a proposito, in Italia c’è stata una rivista anche su Second Life, i lettori di Slow News dovrebbero già saperlo) ci sarò un motivo, no? A proposito: qui c’è un bel pezzo sulla «fine» di Second Life.

Eppure, scetticismo e apocalissi a parte, se c’è qualcuno che può trasformare la realtà virtuale in quel fenomeno di massa che probabilmente immaginavano i coraggiosi pionieri di Virtual, quello è Zuckerberg, con la straordinaria massa critica di utenti che ha raggiunto. Ma non è affatto detto che sia la pietra angolare di un nuovo grande successo. Per scoprirlo bisogna aspettare e osservare anche questo fenomeno con curiosità. La stessa che aveva Stefania Garassini quando scriveva, nel suo primo editoriale di Virtual:

«La realtà virtuale ha reso concreto ciò che da sempre è esistito. Spazi immaginari. Pure teorie. Prima concepite soltanto attraverso tortuosi percorsi mentali, trovano oggi una consistenza inedita. Non solo. Anche la comunicazione diventa sempre più sinonimo di “territorio comune”, di spazio condiviso.

Le reti di computer hanno creato un autentico “mondo parallelo”, dove comunità virtuali dialogano incessantemente per scambiarsi idee, informazioni, per inaugurare nuovi modelli di comportamento. La realtà virtuale è l’esito estremo di una logica che pervade tutte le tecniche della rappresentazione. E così va analizzata, per cogliere il filo rosso che solo può svelarne il senso profondo. Il lettore di “Virtual” forse non si è mai sognato di inserire un dischetto in un computer (sic! Non è una frase meravigliosa?, ndr), ma certamente si è accorto che molte cose sono già cambiate. E non è la tecnologia che le può spiegare».

Se Facebook riuscisse dove altri hanno fallito ci sarà bisogno ancora di filosofeggiare sul tema. E ci sarà da chiedere all’azienda di Zuckerberg qualcosa più che rendere pubblico l’algoritmo.

Potrebbe anche andare a finire, per citare uno dei sodali di Wolf, Andrea Coccia, che Zuckerberg progetterà, con gli Oculus Rift, le nostre future case di riposo.