Una volta, qui, era tutto un paywall

Siamo entrati da qualche tempo nel mondo della subscription economy e là fuori fioriscono, fra l’altro, società che offrono soluzioni tecnologiche per gestire abbonamenti di ogni genere.

D’altra parte, anche il percorso che fai tu su Wolf non è nient’altro che questo: subscription economy.

Il 90% delle aziende tecnologiche – secondo EY – fa ormai uso di modelli di business basati sull’abbonamento. Chi lavora con software professionali o prosumer se ne sarà accorto da tempo e fra qualche anno sarà difficile, probabilmente, immaginare il contrario: non si possiede più, per esempio, la scatola con i file di installazione e il manuale di un software come Adobe Premiere, ma si paga un abbonamento mensile. A nessuno salterebbe mai in mente di possedere un tool che nasce già pienamente radicato in questo ecosistema, come Canva: paghi l’abbonamento, che altro?

Secondo il Subscription Economy Index (realizzato da Zuora, società che fornisce software per gestione di varie forme di abbonamento), la crescita dei servizi di subscription è sei volte superiore rispetto a quella delle vendite di prodotti in forma tradizionale. E questo andamento è stato accelerato dalla pandemia di Covid-19, in ambiti molto diversi da quello strettamente tecnologico o legato all’uso di software.

In ufficio, per esempio, uno dei miei soci ha sottoscritto un abbonamento alle cartucce della stampante – eh sì, dalle nostre parti tocca ancora stampare –: è comodissimo, dice. Non resti mai senza le cartucce, spendi molto meno di quanto spendevi prima e soprattutto ottimizzi il costo e risparmi tempo e non ci pensi più.

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Certo, in quel “non ci pensi più” c’è un po’ il lato oscuro della subscription economy: siccome uno dei suoi pilastri è la ricorsività, fai leva anche sulla pigrizia e sulle persone che si dimenticano di disdire.
Però, ecco, se hai comunicato correttamente la ricorsività, ti consiglio di non lanciare mai, davvero, un servizio in abbonamento su digitale senza una ricorsività programmata, a meno che tu non voglia passare ampie fette delle tue giornate in quell’operazione manuale faticosissima che si chiama retention. che in italiano non ha una sua traduzione appropriata, ma che significa, in buona sostanza, conservare quanto più possibile gli abbonati. La migliore attività che tu possa immaginare in termini di retention è il prodotto che realizzi, il servizio che offri. Se prodotto/servizio sono scadenti o non all’altezza delle aspettative di chi ha sottoscritto l’abbonamento, le persone tenderanno a disiscriversi, ad un certo punto.

Ma le ragioni per cui si può abbandonare un servizio sono molteplici. E fra di esse c’è, sempre più spesso, soprattutto quando parliamo di abbonamenti a contenuti,  il fattore tempo.

«Non ho tempo di leggervi» è una delle motivazioni che viene offerta più spesso da chi si stacca da Slow News, per esempio. Ma è una delle motivazioni e delle lamentele più frequenti anche su Wolf quando l’offerta che proponevamo era fatta da tre uscite densissime a settimana (noi non ci stavamo dietro, ma neanche le persone abbonate!).

A proposito di contenuti, ecco quel che sta succedendo sulla rete italiana.



Nel giro di tre-cinque anni, con un ritardo abissale, possiamo ragionevolmente pensare che la maggior parte delle realtà che producono contenuti informativi si sarà spostata su forme di fruizione dei medesimi a pagamento.
Lo scenario vedrà

  • player storici che adottano varie forme di paywall (subscription, membership o simili). Avendo ancora disponibilità economiche, utilizzeranno piattaforme estremamente evolute come Zephr o Piano, che hanno una potenza di fuoco davvero notevole, soprattutto in termini di possibilità di test su elementi di conversione, abitudini delle persone che leggono e via dicendo, ma anche costi notevoli
  • nuovi player che lavorano direttamente a partire da questo tipo di modello di business o che li adottano molto rapidamente. Di solito, questi si appoggeranno a servizi meno costosi, come ad esempio Steady (quello che usiamo noi), che prelevano una fee
  • piattaforme come Substack, Patreon e simili che tenteranno di lavorare per raccogliere quante più persone/attori di settore possibili, per monetizzare sulla marginalità: diventeranno il regno delle persone che sono riuscite a costruirsi una loro credibilità e che pensano di poter imitare gli esempi di Stratechery, giusto per citare il primo in assoluto con cui sono entrato in contatto fra coloro che hanno perseguito questa strada

Questo significa che ci sposteremo da un mondo in cui si percepiva in qualche modo che fosse “tutto gratis” – in realtà dovrebbe essere chiaro che non lo è mai stato. Prendi i giornali, per esempio: le edizioni digitali italiane non hanno mai raggiunto la qualità delle edizioni cartacee – a un mondo in cui sarà tutto un paywall. Naturalmente, anche questa percezione non sarà del tutto vera, ma è evidente che i giornali, per trovare nuove fonti di ricavi – che non basteranno a mantenere le strutture di costi dei colossi – si butteranno lì, tutti, quasi indistintamente.

Eppure, le persone troveranno comunque il modo di fruire di contenuti gratuitamente. O vedranno in ogni caso soddisfatta la loro sete di contenuti utilizzando altre piattaforme.

Ti confesso, per esempio, che il mio bisogno di una visione d’insieme di quel che è successo nel corso della giornata è ampiamente soddisfatto da due prodotti, uno che è radicato nelle mie abitudini storiche di fruizione del contenuto informativo: il Televideo. L’altro che mi è offerto da Internazionale, cui sono abbonato: la newsletter di Good Morning Italia (probabilmente non la pagherei a parte, ma visto che è inclusa nell’abbonamento di Internazionale e visto che soddisfa un mio bisogno la tengo e la leggo volentieri).
Ti faccio notare che in entrambi i casi ho l’illusione che questi contenuti siano gratuiti: in realtà sono in qualche modo parte della subscription economy (in un caso pago Internazionale, nell’altro il canone Rai).

Come se non bastasse, il budget delle persone per le subscription non è infinito ma è una quantità finita. Quindi, esattamente come è accaduto nel gioco degli scacchi dopo l’avvento di “The Queen’s Gambit” – per approfondire leggi cosa scrivevo su The Slow Journalist in È la dura legge dell’hype, con la facilità di gestione delle subscription tantissimi ci si butteranno. Questo frazionerà tantissimo l’offerta. Probabilmente abbasserà il livello medio dei contenuti. Sicuramente premierà chi sa lavorare in termini di community management.

Tanti vantaggi

Ci sono tanti vantaggi nelle subscription, sia dal punto di vista di chi produce prodotti o contenuti o eroga servizi, sia dal punto di vista di chi ne fruisce.

Dalla parte del produttore c’è, su tutti, la stabilizzazione (relativa: c’è pur sempre un tasso di disiscrizione) dei ricavi e una migliore pianificazione del lavoro e dell’erogazione del prodotto o servizio.
E poi c’è anche quel vantaggio un po’ colpevole di cui dicevamo prima: la ricorsività tutto sommato ti fa godere per un po’ di rinnovi indesiderati da parte di clienti pigri.

Dalla parte di chi fruisce ci sono vantaggi di vario genere:

  • non possedere ma pagare solo quando ti serve
  • non pensare troppo al rinnovo una volta che hai fatto una scelta

e altre questioni del genere,

La tecnologia non basta

L’illusione più grossa che si possa avere è che la tecnologia faccia la differenza. Certo, aiuta. Ci sono tutta una serie di cose che devono funzionare bene e che vanno garantite:

  • esperienza d’acquisto facili
  • cancellazione altrettanto facile
  • login o fruizione del prodotto senza grosse frizioni
  • erogazione del prodotto in tutte le modalità possibili per facilitare la vita a chi ne fruisce

Ma nulla può sostituire un buon prodotto, che deve far leva su

  • valore aggiunto
  • convenienza
  • unicità o perlomeno “scarsità” del servizio/prodotto/contenuto offerto

Attenzione: questo “far leva su” spesso viene confuso con la confezione. «Puntiamo tutto sulla scarcity», mi ha detto un giorno un cliente. «Ok, ma sulla scarsità di cosa?» «Mmm… del tempo! Diciamo che hai solo 3 giorni per fare questo acquisto». Ecco, se ragioni così non funziona.

A meno che non sia vero che quello che offri ce l’hai solo tu e ci siano davvero solo 3 giorni per fare quell’acquisto. O a meno che tu sappia davvero persuadere le persone dell’esistenza di questa scarsità anche se poi non è del tutto vero. Ma mentre ti arrovelli su come “simulare” scarsità, ci sarà sempre qualcuno che lavorerà sul prodotto anziché sulla confezione. E sul lungo periodo farà meglio con ogni probabilità.

Guardare al futuro

Ma se un giorno sarà tutto un paywall e una subscription, quale sarà il prossimo step, come si fa a guardare al futuro davvero? Ci sono modelli che garantiscono di risolvere alcuni dei problemi principali di questo meccanismo? Che sono

  • concorrenza e rapidità di saturazione del settore
  • sovrabbondanza di servizi e contenuti e prodotti
  • legame strettissimo con la ricorsività del prodotto e della consegna (in altre parole: devi sempre avere qualcosa di brillante da dire, da consegnare, da vendere, anche quando non c’è molto da aggiungere rispetto a quel che hai già detto

La risposta è: boh. Sicuramente ci sono tentativi. In particolare, ce ne sono alcuni che si basano sulla tecnologia della blockchain, come, per esempio, il saggio Scissoirs Labels, il cui autore è riuscito a farsi finanziare il suo progetto utilizzando una piattaforma che consente di comprarsi un pezzetto della proprietà di un oggetto digitale (in questo caso, il saggio) con tutta una serie di vantaggi diversi dal crowdfunding tradizionale o dalle subscription.

Questi:

  1. Il saggio esisterà in maniera permanente, con tutti i dati pubblici e liberi grazie a Mirror (la piattaforma di cui sopra). In altre parole: la sua fruizione è libera e pubblica.
  2. I finanziatori possono inviare Ethereum (una criptovaluta) in cambio di “pezzi” del saggio che acquisiscono un loro valore legato al valore del saggio stesso (quante persone lo finanziano) e che possono essere a loro volta venduti. In altre parole: è come diventare azionisti del saggio.
  3. Chi partecipa al finnziamento sarà incorporato nel saggio per sempre anche dal punto di vista tecnologico, secondo le medesime logiche che rendono possibili le verifiche transazionali delle blockchain.
    In altre parole, è il modo per vedersi riconosciuta la propria azione da finanziatori (sì, proprio come i benefattori, i filantropi che rendevano possibili le opere d’arte)

Questo meccanismo è ancora agli albori e non sappiamo se si svilupperà, ma non c’è nessuna ragione valida per ignorarlo. Se – come potrebbe accadere – l’arte mainstream (quella digitale fa già uso di questi meccanismi da almeno un paio d’anni) si accorgerà delle potenzialità, qualche band potrebbe farsi finanziare un album così e la tecnologia potrebbe essere tale da rendere senza frizione anche questo meccanismo apparentemente oscuro.

E a quel punto?

Be’, a quel punto ancora una volta la differenza la faranno il servizio e il prodotto.

Termini tecnici da tener presente quando parli di subscription economy

Vale la pena di creare un piccolo glossario minimo della subscription economy (se pensi che manchi qualcosa, aiutaci a migliorare, scrivici)

  • lead generation: non si scappa, il primo passo per la subscription è la generazione del contatto
  • mail automation: attività di invio di mail automatiche. Anche se vanno sempre manutenute a mano, è bene prevederle. Servono per non lasciare indietro i contatti che fai con le tue lead
  • conversion rate: tasso di conversione di una determinata attività in abbonati
  • nurturing: il modo in cui fai “nutrimento” dei tuoi contatti (i contatti che mandi loro, i modi in cui li coinvolgi)
  • retention: attività di mantenimento delle persone iscritte
  • churn rate: tasso di persone che si disiscrivono, anche detto tasso di abbandono
  • retention rate: tasso di mantenimento. È l’esatto contrario del churn rate ed è ad esso inversamente proporzionale
  • membership: differisce dalla subscription perché è più orientata alla creazione di un sentimento d’appartenenza al brand che la semplice subscription in teoria non prevede
  • paywall: è il “muro”, cioè la parte di un sito (ma in realtà è qualsiasi cosa che crea una sorta di barriera all’ingresso) che impedisce la lettura (o comunque la fruizione) di un contenuto se non si sottoscrive l’abbonamento
  • frictionless: senza attrito. Cioè, senza troppe difficoltà nelle operazioni di iscrizione o disiscrizione
  • recurring payment: pagamenti ricorsivi. Cioè, che si rinnovano automaticamente al momento della scadenza (richiedono patti chiari e amicizia lunga con i clienti)

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