Quanta psicologia in Pokémon GO

[Questo testo è stato proposto a Wolf, come contributi gratuito, da Stefano Paolillo, psicologo dell’audiovisivo, che fa parte anche dello staff del Premio Informazione Articolo 11]

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Il videogioco Pokémon Go sta impazzando. Accade sempre più di frequente che un videogioco possa godere di un successo virale. Si sa, gli esseri umani, quando sono liberi di fare ciò che vogliono tendono a imitarsi a vicenda. Ma questo fenomeno, oltre gli aspetti imitativi di tipo adolescenziale, mette in moto ben altro.

I videogiochi nascono innanzitutto per divertire e – solo dopo – per fare soldi. Questa seconda possibilità, però, si è dimostrata determinante perché i profitti che hanno cominciato ad accumulare le case di produzione hanno permesso di aumentare progressivamente gli investimenti e, di conseguenza, la capacità di «induzione tecnologica». I videogiochi hanno accompagnato e incentivato lo sviluppo di macchine sempre più potenti, con processori sempre più performanti e costi sempre più bassi.

I videogiochi sono diventati il livello d’ingresso della cultura digitale dal momento che i bambini ormai entrano in contatto con la logica digitale proprio attraverso di essi. Col passare del tempo la massa di persone digitalizzate, siano esse nativi o emigranti, è diventata tale che tutte le innovazioni e tutti i comportamenti che si generano hanno consistenti ricadute nelle società. Un esempio per tutte sono le pratiche di gamification, ovvero quelle iniziative che cercano di ottenere una modificazione del comportamento attraverso le dinamiche insite nei videogiochi, come le gratificazioni e l’esploratività cognitiva.

Il videogioco Pokémon Go non è sbucato dal nulla. Già nel 2007 prendeva avvio Critical City, un videogioco a realtà aumentata che nasceva con intenti sociali. E’ evidente che Pokémon Go è stato lanciato con l’intento di fare profitti, testimoniato anche dagli investitori che hanno permesso l’operazione.

Il gioco si basa su quella che viene chiamata «realtà aumentata», una sorta di terra di mezzo tra off line e on line. Attraverso lo sfruttamento delle mappe di Google, il software piazza in corrispondenza di alcuni luoghi virtuali (sulla mappa) alcuni pupazzetti che potranno essere avvicinati, fotografati e catturati tramite i movimenti nello spazio cittadino rilevati dalla geolocalizzazione dell’apparecchio mobile.

Questo tipo di attività mette in moto alcune attitudini del nostro cervello che abitualmente usiamo in altri casi. Per esempio, quando guidiamo un’automobile, noi «diventiamo» grandi quanto l’auto e, grazie a questa capacità di adattamento, evitiamo di urtare persone e oggetti mentre ci muoviamo. Come anche, quando decidiamo un percorso per andare da casa al luogo di vacanza, costruiamo nella nostra testa la «mappa mentale» del tragitto, tenendo conto della nostra fretta (obiettivi), dell’ora e del traffico (vincoli), delle caratteristiche del mezzo con cui ci muoviamo (percezione di sé) e così via. Pokémon Go agisce allo stesso modo e ci costringe a lavorare sulla mappa mentale che appositamente costruiamo nel nostro cervello.

Tutto questo lavorìo tra reale e virtuale ha l’effetto collaterale di abituarci lentamente a sovrapporre e integrare nelle nostre pianificazioni sia il livello reale, sia quello virtuale. Progressivamente ci troveremo pronti a gestire sistemi più complessi che potranno aumentare le nostre capacità di orientarci in questa «protomatrix» che si prospetta nel futuro ormai neanche tanto remoto.