Wolf. 94 – Rhynchophorus ferrugineus

Di monopoli e competizione e di come si possa imparare da un coleottero e da Peter Thiel l’arte del lifestyle business
Il Rhynchophorus ferrugineus è meglio noto come punteruolo rosso.  È un coleottero ed è un parassita micidiale per molte specie di palme. La storia di queste palme – e dintorni – la racconteremo prossimamente in Slow News, perché è una storia che merita approfondimento e la giusta dose di lentezza. Qui su Wolf, come accade spesso, ci interessa prendere una questione che sembra radicalmente al di fuori della nostra linea editoriale per trarne insegnamenti.

Di Rhynchophorus ferrugineus, dunque, racconterò solo una parte della storia. Attivo indifferentemente il giorno o la notte, capace di volare fino a 1 km di distanza, con una capacità riproduttiva impressionante, il simpatico punteruolo rosso attacca le palme, scava, depone le larve che poi si sviluppano e ricominciano il gioco. Nutrendosi delle cellule delle piante. Che, in poco tempo, muoiono e vanno abbattute (se no, si staccano le foglie, i rami, e poi le palme collassano).
Citofonare comuni della Riviera Ligure di Ponente (incluso Sanremo. Ma questa sarà poi la parte lunga della storia) per vedere che cosa sta succedendo quest’estate.
Evidentemente, il punteruolo rosso  è un parassita. La sua esistenza implica che le palme non esisteranno più. Ma al tempo stesso, se infetta tutte le palme che ha a disposizione è destinato all’estinzione. Qua e là – anche in Italia, dove il punteruolo non esisteva – si studiano metodi per provare a fermarlo. Metodi competitivi. Che prevedono l’uso di antagonisti naturali (virus o altri parassiti).
Mentre ascoltavo una parte di questa storia da alcuni operai che stavano rimuovendo sistematicamente i rami delle palme alla darsena di Arma di Taggia – e dopo aver cercato informazioni online –, non ho potuto fare a meno di fare un collegamento con un libro che sto leggendo su suggerimento di un abbonato di Wolf.
Si tratta di Zero to One, di Peter Thiel (*). Per la cronaca, Peter Thiel è il miliardario americano co-fondatore di Paypal che si era messo in testa – riuscendoci – di distruggere Gawker per vendicare un pezzo che aveva rivelato il suo orientamento sessuale (qui tutta la storia).
Zero to One, va detto, è un libro assolutamente da leggere e per molti versi illuminante anche se nel corso della lettura mi chiedo come sia possibile che, partendo da punti di vista simili, si approdi a considerazioni diametralmente opposte.
Una delle teorie di Thiel – semplifico – è che la competizione vada semplicemente evitata e che il monopolio sia una cosa buona.
Se lo vedi dal punto di vista di una nicchia, la cosa ha perfettamente senso. E ti consiglio di considerarlo davvero da quel punto di vista, come insegnamento. Se poi lo sommi a questo benedetto internet delle vacanze rotto, di cui parlavamo nel numero 93, vedrai che ci sono una marea di nicchie e di «mercati» (uso il termine tra virgolette solo per chiarire che per me il «mercato» non è un essere vivente e non va considerato in maniera fideistica) nei quali puoi applicare il primo suggerimento di Thiel. Probabilmente il più importante per chiunque pensi ad una start-up.
Rifuggi dalla competizione. Trova la tua nicchia e diventa monopolista in quella nicchia. In altre parole, servi quella nicchia talmente bene da creare barriere all’ingresso talmente alte che difficilmente qualcuno ti potrà scalzare.
Se proviamo a pensarlo in piccolo, con tutte le fatiche del caso, è esattamente quello che sta facendo Slow News (che si rivolge alla nicchia generalista degli amanti del giornalismo lento e approfondito) e, ancora più in «verticale», Wolf, che si rivolge alla nicchia di chi, per mestiere, è interessato alla comunicazione, al giornalismo, alla SEO, ai social, alle notizie che riguardano i media in Italia. Proviamo a servire questa nicchia al meglio, avendola individuata e avendo individuato i bisogni delle persone che la compongono. Se Slow News, o il suo primo verticale, Wolf, si mettessero a competere con i grandi giornali, non avremmo alcuna possibilità di riuscita. La competizione, insomma, può uccidere.
Se proviamo a pensare in grande, invece, è quello che hanno fatto, per esempio, Google e Facebook, per citare due esempi di monopolisti di fatto nel loro campo specifico (le ricerche online e le piattaforme di social networking). Google ha praticamente annichilito la concorrenza. Facebook, oltre ad essere popoloso quanto un continente, ci sta lavorando con passione (Peter Thiel è nel board di Facebook).
Senz’altro, il Thiel di From Zero To One è felice, pensando a Google e Facebook. È convinto – e lo dice senza problemi –  che il monopolio sia, sostanzialmente, portatore del bene. La competizione è per perdenti, dice Thiel. E lo scrive anche sul Wall Street Journal (il passo è tratto dal libro).
Ora. È chiaro che se uno ha fondato Paypal ha le sue brave ragioni per sostenere una cosa. E se uno che, invece, scrive Wolf (che ha di nuovo raggiunto 160 abbonati + 3 abbonamenti aziendali) per tre giorni la settimana, ne sostiene un’altra, è altamente probabile che il lettore pensi: che vuoi? Mi leggo Thiel.
Ma io mi gioco la carta del punteruolo rosso.
Il punteruolo rosso è l’esempio estremo che dimostra, senza possibilità di scampo, che la competizione è semplicemente naturale. Non è per perdenti o per vincenti. Fa parte integrante del modo di essere della natura. Competizione e conflitto non sono concetti negativi. Sono descrittivi di un fenomeno intrinseco alla vita stessa, non solo alla natura umana. E se gli uomini tentano di fermare il punteruolo rosso prima che distrugga tutte le palme della Riviera ligure di Ponente, lo fanno competendo con lui, che si trova quasi senza avversari, visto che lo hanno importato – incautamente – dall’Asia insieme alle palme.
In effetti, anche Thiel ci va vicino, a dire che il conflitto è naturale: ammette che un monopolista in un settore non lo è in un altro (per esempio: Google è monopolista fra i motori di ricerca, ma non lo è nel mercato dell’advertising), ma poi non porta alle estreme conseguenze questa innegabile constatazione. L’estrema conseguenza è sotto gli occhi di tutti: è la guerra tra Facebook e Google. Che è la seconda carta che mi gioco dopo il punteruolo rosso.
Pur monopolisti in ambiti diversi, Facebook e Google si fanno la guerra (una delle battaglie di questa guerra l’abbiamo raccontata, su Wolf, parlando di Pokémon Go. È uno dei pezzi free di Wolf più letti) proprio nel mercato dell’advertising, per riuscire a dominarlo o, quantomeno, a racimolare la fetta di mercato più ampia possibile.
Facebook e Google stanno evidentemente competendo l’uno contro l’altro, senza esclusione di colpi. Facebook fa la guerra a Snapchat attraverso le Instagram Stories. Facebook ha distrutto Periscope con i live e compete con YouTube (che è sempre di Google). Insomma: i monopolisti della Silicon Valley se le danno di santa ragione, altro che. E hanno obiettivi evidenti: preservarsi, crescere, fare profitto.
Così, quando Thiel scrive

«I monopolisti creativi non solo solamente buoni per tutto il resto della società; sono anche potenti volani per renderla migliore»

bé, passa dall’osservazione descrittiva, quasi scientifica, al parere personale, quasi fideistico (nonostante ciò, lo ripeto, il libro va letto).
Volendo obiettare con il medesimo metodo (non fideistico, ma di commento personale) potrei rispondere che, se fosse così, Mark Zuckerberg non avrebbe donato 500mila euro in Facebook advertising (!) alla Croce Rossa Italiana. Ma avrebbe messo in piedi un programma di investimenti (dal ritorno sicuro: di lavoro ce ne sarebbe) per partecipare alla messa in sicurezza del territorio. Utopia? E perché mai? Se Elon Musk può fondare Space X, per mandare uomini su Marte, perché un miliardario della Silicon Valley che, da monopolista dei social network, vuole rendere migliore la società, non dovrebbe occuparsi di una cosa sicuramente redditizia e sicuramente utile come la sicurezza delle persone?
Cosa costituisce un effettivo miglioramento della società per prima cosa? Se dovessi scegliere le priorità in tal senso, le daresti ad aumentare la probabilità che si possa andare a farsi una gita su Marte (per poi andarci a vivere)? O prima ridurresti drasticamente le probabilità che centinaia di persone muoiano per un terremoto o un’alluvione?
La risposta è importante e avrai capito che io sceglierei, senza dubbio, la seconda.
Ma non sono un illuso: lo so, che un monopolista non vuole fare il bene della società ma vuole solo fare più soldi, anche quando parla di «connettere tutto il mondo». Lo so perché non c’è nessun monopolista che investe nella messa in sicurezza del territorio.
A noi, però, interessa trovare e offrire soluzioni ai problemi. E il problema contingente, qui, è quello di avere delle idee e capire come portarle avanti. Proviamo a mettere insieme la storia del punteruolo rosso, i suggerimenti di Thiel e la storia del monopolista che in realtà fa la guerra anche se dice di no.
Un altro modello
Se lo facciamo correttamente, magari, troviamo una strada:

individuiamo una nicchia di persone con un bisogno, possibilmente non troppo servita in maniera puntuale da potenziali concorrenti (all’inizio, evitare la competizione è più che sensato)
la serviamo nel migliore dei modi possibili
diventiamo «monopolisti» di quella nicchia
a questo punto, però, invece di «scalare» e ingrandirci (che è lo step che suggerisce Thiel, ovviamente), ci concentriamo su quello che potrebbe essere definito un lifestyle business, cioè un modello d’affari che sia orientato a raggiungere un determinato ammontare di introiti o a garantire un certo tipo di stile di vita. Ovvero: sappiamo che prima o poi avremo dei concorrenti diretti. Oppure finirà che arriverà un parassita tipo il punteruolo rosso. Lo sappiamo perché è la natura che funziona così. Quindi ci prepariamo adeguatamente, alziamo le barriere all’ingresso, miglioriamo sempre di più il nostro lavoro, miglioriamo il servizio che offriamo, cerchiamo di allargare il nostro pubblico di riferimento e rendiamo il nostro lavoro, prima di tutto, sostenibile pensando al medio e lungo periodo: scalare non è necessario. È possibile che si sia arrivati ad un punto in cui more is less.

Questo mi sembra un modo di approcciarsi ragionevole alle proprie idee. Per qualcuno potrà essere poco ambizioso. Invece, per me, lo è molto e ci pensavo mentre tornavo dalla darsena di Arma di Taggia e, finalmente, avevo capito cosa volessero dire tutti quei tronchi di palma senza fogli che avevo visto nei giorni precedenti. È ambizioso perché significa provare a fare esattamente quel che si dice di voler fare, provare a vivere esattamente come si dice di voler provare a vivere. Vorrei ricordare l’esempio di Ben Thompson, perché per me è illuminante. Thompson non ha inventato Facebook. Non ha inventato Google. Probabilmente non cambierà il mondo. Eppure è un analista incredibilmente lucido, seguito in tutto il mondo da almeno 4000 abbonati (non mi stupirei se fossero diventati 5000) che gli garantiscono almeno 400.000 dollari all’anno di entrate (non mi stupirei se fossero 500.000) per 4 pezzi a settimana.
Non solo Wolf
Non è una posizione che assumo solamente io su Wolf., per fortuna. Posso anche produrre esempi esteri (ché, si sa, se una cosa viene scritta in inglese su un sito trendy è meglio di un sito italiano). Mi viene in soccorso, per esempio, David Bloom che, su Tubefilter, scrive: Insights: Toward A New Publishing Paradigm Where Scale Fails And More Is Less. Citando lo stesso Thompson e Ezra Klein, ecco che ci risiamo con una musica che gli abbonati di Wolf dovrebbero conoscere, ma che non ripetiamo mai abbastana. Bloom scrive:

«Trova un pubblico di nicchia che si interessi fortemente ad un argomento. Servilo come nessun altro [Bloom usa l’intraducibile superserve] con unici, profondi e riflessivi approfondimenti sul tema; informa con un tono di voce e un approccio unici. Trova altri modi per connettere quel pubblico di appassionati, con eventi dal vivo, merchandise, esperienze d’approfondimento e molto altro».

Amen.
Non sarà disruptive (persino Thiel definisce questa parola una buzzword, una parola di moda, che ormai non vuol più dire niente). Ma secondo me se riesci a farti un lifestyle business, poi non devi aver paura di nessun punteruolo rosso.
(*) Il link rimanda al programma di affiliazione di Amazon. Se acquisti, a Slow News e Wolf arriva una piccola percentuale della transazione.

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