Wolf. 57

L’ingenuità della rete
L’ingenuità della rete di Morozov è un ottimo libro(*). Non lo scopriamo certo oggi su Wolf. Ma alla luce della guerra della Silicon Valley – che abbiamo raccontato martedì e che ha trovato posto anche su Slow News in una versione di approfondimento, anche grazie al fatto che praticamente nessuno, in Italia e nel mondo, si è interrogato sulle reali motivazioni che spingono un Pierre Omidyar a produrre un film come Spotlight – acquisisce un’ulteriore senso di necessità. Comprenderlo, per me, è diventato assolutamente necessario per uscire da qualsiasi equivoco e ricondurre il nostro lavoro su Wolf e, più in generale, tutto ciò che si può offrire alla conversazione su tematiche inerenti al digitale a quello che Morozov chiama cyber-realismo.
A volte, lo riconosco, è difficile non cedere al pessimismo. Altre volte vorremmo essere cyber-entusiasti, ma la linea che guida quel che pubblichiamo da queste parti è proprio il tentativo di essere realisti e pragmatici.
Morozov lo è. E lo è perché sa quel che significa entusiasmarsi per cose tipo le rivoluzioni di Twitter. Lo ha fatto lui stesso. E poi è tornato sui suoi passi ed è stato capace di comprendere l’errore e di produrre un testo a tratti dissacrante a tratti lucido.

«L’Occidente eccelle nel costruire e sostenere strumenti efficaci per infrangere i firewall dei governi autoritari, ma lascia anche che molte sue imprese non rispettino la privacy dei loro utenti, psesso con conseguenze disastrose per coloro che vivono in società oppressive. Nonostante la parola d’ordine attualmente sia difesa della libertà di internet, ci sono poche possibilità che i politici occidentali vogliano impegnarsi a risolvere i problemi creati da loro stessi».

È interessante notare che anche nel lavoro di Morozov si evidenzia la medesima contrapposizione che caratterizza la vendetta legale di Peter Thiel contro Gawker: libertà vs privacy. Chi combatte per il diritto alla privacy di un potente, come si pone nei confronti del medesimo tema quando si parla di privacy di semplici cittadini? Il confine fra privacy e libertà si chiama censura?
In un’intervista recente su un mio vecchio lavoro mi è stato chiesto come mi rapporto con il tema della libertà d’informazione in Italia. Io, sinceramente, mi sento libero. Di dire, scrivere, fare, pensare ciò che desidero. Morozov non è d’accordo con me:

«Mentre in alcuni casi basta bloccare l’accesso a un post particolarmente critico, è ancora meglio rimuovere quel post da internet in via definitiva. Mentre i governi non hanno questo potere, le aziende che rendono possibile la pubblicazione di questi post sui loro siti possono farlo in un attimo. […] Le aziende sono abili nel trovare contenuti inappropriati, vosto che conoscono le loro community online meglio dei censori del governo. In definitiva nessun individuo può dire alle compagnie come gestire queste community, quindi molti appelli alla libertà di espressione cadono nel vuoto».

Il pensiero non può che andare ai contenuti che Facebook rimuove arbitrariamente (o a quelli che non rimuove affatto), al fatto che a Google sia stata demandata la gestione del diritto all’oblio – un esempio? Di tanto in tanto Google notifica a Tvblog di aver deindicizzato pagine di ex concorrenti di Miss Italia che hanno fatto richiesta perché questo loro passato venga dimenticato –, alle penalizzazioni di Google stesso che può farti sparire dalle SERP se non segui le sue buone pratiche. E non è mica il peggio che c’è. Lo spiega ancora una volta Morozov:

«Per Quanto Google e Facebook ci possano sembrare tremendi, probabilmente censurano molto meno delle aziende che operano nei paesi autoritari»

Per tornare nell’universo-Wolf, Andrea Signorelli scriveva, giustamente, a proposito dell’ossessione per gli algoritmi:

«Nessuno crede che davvero Google (o Facebook) stia manipolando le elezioni. Il problema, però, è che Google (o Facebook) potrebbe farlo, senza che nessuno (almeno in tempi brevi) abbia la possibilità di rendersene conto».

Mettere insieme i pezzetti di questa dissertazione dovrebbe aiutarci ad avere un approccio quanto più concreto e realista possibile.
Ogni tanto bisogna abbandonarsi anche alla filosofia. Anche perché la filosofia, poi, ha delle conseguenze pratiche.
Chiara Severgnini ha scritto per La Stampa un pezzo sul modo in cui la stampa italiana ha affrontato la nascita di Facebook.
Purtroppo non ci sono i link, nel pezzo, così sono andato a recuperarli. Ho dovuto googlarli, perché quasi non ci credevo, che fossero apparsi su testate giornalistiche. Ad agosto del 2007 sul Corriere ecco un breve ritratto di Zuckerberg:

«23 anni, si è inventato il social networks [la “esse” è presente nell’originale, ndr] oggi più di moda, Facebook, inizialmente destinato agli studenti dei college, ma ora esploso a scala mondiale; lo gestisce insieme con le sorelline, ha rifiutato sdegnosamente offerte miliardarie da Viacom e Yahoo!. Sembra divertirsi e forse progetta di andare in Borsa da solo».

Un anno prima Facebook era (sempre sul supplemento tecnologia del CorSera)

«un network sociale alla MySpace che attualmente raccoglie 8 milioni di studenti distribuiti su 2000 campus»

Repubblica, a luglio del 2007, ci va lontanissima:

«Facebook, uno dei siti-piazza più amati dagli universitari. È l’equivalente internettiano di una città con tanti “muretti”: un luogo dove ci si presenta, ci si ritrova, si resta vicini agli amici, si flirta, ci si scambia esperienze e sciocchezze, si raccontano pettegolezzi e ci si invita ai party, insomma si costruiscono amicizie e relazioni seguendo la logica delle diverse “reti”, quelle del college, della facoltà, ma anche in molti casi dell’azienda».

Lo stesso anno c’era già chi pubblicava analisi come questa.

Altro che muretto e sciocchezze.
Il dramma è che ancora oggi molti articoli mainstream che parlano di Facebook, della Silicon Valley, di Google, di internet, sono ingenui come quelli che ti ho mostrato, spesso privi di qualsiasi forma analitica (ci si concentra su quanto tempo si perde a star su Facebook, e si inseguono un po’ di conversazioni sul tema della privacy, troppo spesso senza la profondità che meriterebbero) o critica o di competenze tecniche per il racconto (vedi tutte le amenità che si leggono sul tema algoritmo).
Abbiamo bisogno di anticorpi per controbattere questa ingenuità diffusa, riportare le tecnologie che utilizziamo al loro ruolo e, in definitiva, lavorare e vivere meglio.
Trasparenza
Come di consueto, questo link rimanda al programma di affiliazione di Amazon. Se compri il libro di Morozov seguendolo, a te non cambia nulla. A noi arriva una piccola percentuale. È un altro modo per sostenere il nostro lavoro.