Wolf. 13

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Non sequitur
Una delle prime cose che si dovrebbe insegnare in qualsiasi corso di formazione è il concetto di causa-effetto, cui andrebbero aggiunti come corollari indispensabili: prove pratiche di metodo scientifico, teoria e tecnica dell’inferenza logica, interpretazione dei dati, differenza fra implicazione e implicazione biunivoca, fallacie logiche: conoscerle per sconfiggerle.
All’università avevo un docente che ci raccontava che in casa aveva interruttori che accendevano o spegnevano lampadine, altri che non avevano alcun effetto. Perché non voleva che le figlie crescessero con la fallacia logica che se A–>B allora B–>A.
Un po’ estremo, forse, ma rende l’idea. Vincenzo Tagliasco, docente di informatica medica e autore, fra l’altro, del Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali (con alcuni alunni ne correggemmo le bozze), non era una persona incline alla mediocrità. A lui devo il mio primo stage giornalistico, visto che mi autorizzo a partecipare a due settimane di formazione a Torino Sette (La Stampa, sotto l’occhio vigile di Gabriele Ferraris) anche se facevo ingegneria biomedica. Anche la sua tragica fine non ha niente a che vedere con la mediocrità.
Non ho mai saputo se quella storia degli interruttori fosse vera o solamente un aneddoto per gli studenti del primo anno di Ingegneria biomedica all’Università degli Studi di Genova, anno accademico 1996-1997. Vero o meno, rende  comunque l’idea.
Una lunga introduzione per raccontare alcune linee di dialogo tratte da una storia vera di cui sono triste protagonista.
«Il tempo di permanenza sulle nostre pagine per gli accessi di origine social è molto basso: meno di 30 secondi».
«Vero. Significa che dobbiamo migliorare quel che facciamo sui social».
«No. Significa che dobbiamo scrivere pezzi corti».
Bene, caro giornalista, caro editor, caro social manager, caro editore. Ho un messaggio per te, chiunque tu sia: se hai tempi di permanenza bassi sulle tue pagine non significa che è perché «le persone su internet vogliono leggere cose corte».
Se non ci credi, ecco in nostro soccorso un bel pezzo firmato da Tom Rosenstiel, direttore esecutivo dell’Associated Press Institute, in cui si sfata tutta una serie di miti circa le abitudini degli utenti online. Il pdf si scarica qui, sono 18 pagine, la lettura è vivamente consigliata.
Si scopre, per esempio, che ai lettori piacciono le storie lunghe, ben scritte, ben fatte, ben organizzate, e che i pezzi lunghi fanno più engagement di tutti gli altri. Che strano, eh?
Contro le buzzword
No, questo non significa che dobbiamo fare tutti longform. Per carità.