Per interesse

Louie Mantia – «America’s Favorite Icon Designer» – chiede su Twitter

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«What‘s something that seems obvious within your profession, but the general public seems to misunderstand?».

Vale la pena di scorrere le decine di risposte per dissipare un sacco di equivoci, mentre proviamo a rispondere anche sul gruppo di Wolf.

Per quanto mi riguarda, se devo pensare ad aspetti del mio lavoro sistematicamente ignorati o non capiti penso, prima di tutto, a quante persone non vedono che qualcuno scrive i testi che leggono, usano, cliccano.

Che sia un lavoro e che lo faccia qualcuno pagato per farlo, non il grafico o lo stampatore o il programmatore.

Allargando un po’ lo sguardo una delle frasi che mi sono sentita dire più spesso, a proposito di qualunque comportamento aziendale, è «lo fanno per interesse», alternata o combinata a «lo fanno solo per correttezza politica».

L’equivoco non è questo, naturalmente.

Come scrivevo sul Tascabile

«L’idea da mettere in discussione non è che la pubblicità cerchi di farci fare qualcosa nell’interesse di chi la produce, spesso riuscendoci – questo è ovvio. L’idea da mettere in discussione è se la pubblicità – che sia di massa o profilata, che sia personalizzata e diretta o uguale per tutti e pubblica – ci faccia fare cose che noi, altrimenti, non avremmo mai voluto o desiderato».

Non solo le aziende si comportano in modo da massimizzare i profitti, ma anche le aziende no-profit o i singoli agiscono sempre per «interesse», soprattutto quando «fanno comunicazione», cioè progettano e realizzano operazioni complesse per far arrivare un messaggio alle persone giuste.

Tutti comunichiamo «per interesse», perché la comunicazione è un meccanismo evolutivo che consente la sopravvivenza, il miglioramento dell’esistenza, l’ottenimento di vantaggi. Da «per favore» in su, noi aggiungiamo alle parole uno strato di relazione e di intenzione, sia quando le scegliamo sia quando le riceviamo.

L’equivoco è sull’irrilevanza del come le aziende, comunicando, perseguono il loro interesse e dell’effetto che questo come ha sulla società. Il come è di fondamentale importanza, soprattutto oggi, che siamo a caccia di valori molto più di prima. Il coro invece è sempre lo stesso.

Se Oliviero Toscani torna a (far) fotografare la società per Benetton.
Lo fa per interesse.

Se Netflix sfila al Pride, forte del suo prodotto, non out of the blue.
Lo fa per interesse.

Se l’ultimo film Pixar, Coco, festeggia la cultura messicana.
Lo fa per interesse.

Se Disney sceglie tre protagonisti fuori dai canoni per l’ultimo episodio di Guerre Stellari.
Lo fa per interesse.

Se Stabilo Boss sceglie di evidenziare le donne nascoste nelle foto (e nella storia).
Lo fa per interesse.

(2012)

(2018)

Il come fa tutta la differenza del mondo, soprattutto quando l’azienda, nel scegliere di comportarsi così, corre un rischio reale. La «correttezza politica» è il contrario del rischio corso da L’ultimo Jedi nell’iminicarsi i vecchi fan (o i fan vecchi), mostrando un cattivo tormentato, un amore non hollywoodiano, una donna protagonista ma per davvero.

Se sei Netflix al Pride e tappezzi Milano di affissioni a favore della libertà personale proiettare un montaggio dei baci di tutti i tipi delle tue serie (non c’è solo Sense8, ma soprattutto Sense8) fa la differenza tra «value hijacking» e appartenenza.

Se sei Rolling Stone e fai una copertina di protesta, ma non sei una rivista o una redazione con una cultura di diritto e di libertà, il problema non è che lo fai «per interesse» e neanche «per finta», è che non ci credi neanche tu e il mondo intorno a te lo annusa, lo scopre e te lo tira dietro.

Prendere posizione, come scrive Paolo Iabichino, fa la differenza tra restare o scomparire:

«Da anni i profeti della comunicazione speculano sulla morte della pubblicità. E da anni mi ostino a scrivere, insegnare, divulgare e condividere un modo più adulto e civico di fare questo mestiere. Dove ci si assume la responsabilità dei propri messaggi. Dove si corre il rischio di tagliar fuori una fetta di pubblico. Dove la presa di posizione racconta il patrimonio di valori che ogni marca può raccontare come capitale narrativo.»

Correre il rischio di tagliar fuori una fetta di pubblico è il cuore del mio metodo di lavoro. Non puoi piacere molto se non accetti di non piacere per niente. Non c’è capitale narrativo senza conflitto, senza crisi, senza trasformazione.

Non c’è «interesse» senza responsabilità, non a caso, da anni, le marche di maggior successo usano pay off che sono imperativi categorici: Just Do it, Think Different. Nel mio piccolo io dico «Meno disruption, più design». Non fare a pezzi il mondo in cui vivi senza un progetto per ricostruirlo migliore.

A me piace lavorare a un mondo in cui «farlo per interesse» significhi una cosa diversa, significhi farlo perché ci interessa. Per davvero.