In Medium stat business?

Medium è una piattaforma di pubblicazione online, relativamente recente. È stata fondata nel 2012 da Evan Williams – già co-fondatore di Twitter. È aperta al pubblico dal 2013.

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In uno splendido profilo di Williams pubblicato da The Atlantic si legge una frase che bisognerebbe scolpirsi bene in testa per capire il mondo in cui viviamo.

«Though few of his businesses have turned a profit, he is a billionaire».

Anche se poche delle sue idee d’affari hanno avuto profitto, è miliardario. Nulla di male, per carità. Ma fa riflettere a proposito del concetto di bolla.

Comunque. Medium nasce come via di mezzo fra una grande piattaforma di pubblicazione (come Blogger) e una piattaforma di microblogging (Twitter) e punta tutto sulla qualità (qualunque cosa sia).

Su Medium puoi, di fatto, avviare un tuo blog o una tua pubblicazione. Senza bisogno di nulla. Hai un’interfaccia WYSIWIG (semplice quanto un semplice programma di videoscrittura) e puoi andare online con un tuo scritto, un tuo spazio (che non è davvero tuo, perché giace su una piattaforma terza) in pochissimi minuti e con conoscenze del web pressoché nulle.

L’ideale. Sì. Per farsi intrappolare in una piattaforma altrui.

Anch’io uso Medium, intendiamoci. Lo utilizzo come utilizzo altri servizi analoghi: lo utilizzo – sempre più raramente – per operazioni di content marketing e di personal branding. Per ripubblicare pezzi che ho scritto altrove e che possono beneficiare di un’altra leva per essere diffusi e per raggiungere persone che magari non mi avevano trovato altrove.  In altre parole, lo uso coerentemente al modello di business proposto da Wolf. Cioè, come leva per trovare altre persone che poi verranno nel mio stadio di proprietà.

E lo utilizzo – come suggerisce Virginia Fiume nel nostro gruppo di conversazione su Facebook – come piattaforma relazionale, per posizionarmi su determinate verticalità. Aver pubblicato in inglese il mio pezzo sul modello di business per il giornalismo del futuro su Medium mi ha fruttato una cosa mica da poco: questo articolo su Wan Ifra in cui si parla di Wolf. Non si mangia, non è profittevole, ma è utile in termini di posizionamento. Qualunque cosa significhi.

Altri hanno fatto altre scelte, ed è più legittimo, chiaramente. Qualcuno, probabilmente, si sarà fatto convincere da quanto ha dichiarato Evan qualche tempo fa e da una leggenda metropolitana che si è diffusa molto rapidamente negli ambienti del digital marketing.

La dichiarazione appare in un’intervista su Forbes ed è di quelle che, personalmente, tendo a ignorare, senz’altro a causa di pregiudizi autoconfermativi ma anche perché è un modo di presentare le cose che è completamente agli antipodi rispetto a ciò che predico e pratico.

«L’idea non sarà quella di far partire un nuovo sito. Quella è una cosa morta. I siti individuali non conteranno. Internet non sta andando verso miliardi di persone che vanno su milioni di siti. Sarà tutta una questione che riguarderà siti “centralizzati”».

Che era un modo per dire: venite da me, su Medium. All’epoca non si poteva ancora monetizzare direttamente. Ad un certo punto, invece, è stato possibile. Williams, annunciando una serie di cambiamenti nella piattaforma in un post dal titolo Taking Medium to The Next Level, aveva aperto alla possibilità di fare branded content per Mediumnative advertising in partnership con gli editori, dando cioè agli editori la possibilità di monetizzare. Così, per esempio.

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E poi creando le Promoted Stories.

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Ovvero, un’unità specifica di vendita di native advertising su Medium, di cui avrebbero beneficiato anche gli editori. Interessante la metrica sulla base della quale viene organizzata la vendita di questi spazi pubblicitari: Total Time Read (tempo totale di lettura). Sempre quantitativa, ma almeno un po’ diversa dalle pageviews.

Infatti, il programma per convincere a lasciar perdere i propri siti personali e a concentrarsi su Medium prevede una serie di ricavi divisi fra gli editori. Ecco qui le specifiche, nella sezione Revenue for Publishers.

L’offerta Native advertising permette agli editori che accettano di ospitare le Promoted Stories, generalmente prodotte da Medium stesso o dai partner commerciali (come questa di Bose).

Poi c’è la sezione Creative partnership, in cui Medium fa da «facilitatore» (in pratica, da concessionaria o da centro media) fra gli editori e i brand per la creazione di native da parte degli editori stessi.

Infine, la possibilità di creare dei programmi di membership direttamente su Medium per essere pagati direttamente dai lettori, cui dare accesso a contenuti esclusivi.

Tutto molto bello e interessante, giusto? C’è anche una forma di diversificazione degli introiti. C’è l’ossessione per la qualità, sembra che ci siano le persone al centro, sembra funzionare. Il problema è che questo modello va a schiantarsi contro le dimensioni di Medium. Che è e resta una piattaforma-editore (molto bella questa battuta in forma dialogica su Neyman Lab: «So, is Medium a platform or a publisher?» «Yes».).

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E così, ecco che qualche giorno fa Evan Williams (che tempo fa si premurava di specificare: Medium non è uno strumento di pubblicazione) ha scritto un altro post motivazionale su Medium e a proposito di Medium. Ammettendo fra le righe alcuni errori (anche se il pezzo si intitola Renewing Medium Focus) e parlando, un po’ fumosamente, della necessità di trovare un nuovo modello di business.

Traduzione in pratica? Be’, niente di bello. 50 dipendenti di Medium licenziati (1/3 del totale), sospensione del progetto delle Promoted Stories e della distribuzione dei ricavi con gli editori che avevano aderito al programma.

A Politico, per dire, non l’hanno presa molto bene. Il pezzo in cui parlano del fatto che alcuni editori dichiarano di non essere nemmeno stati avvertiti dell’ennesimo cambiamento di rotta finisce così:

«Dopo questa settimana, Medium non venderà più pubblicità, anche se dovrà onorare il minimo garantito agli editori. Ma una volta che quel minimo garantito finirà in pochi mesi, le pubblicazioni online che hanno deciso di fare all-in su Medium l’anno scorso saranno in grossa difficoltà. Nel frattempo, Williams e Medium continueranno a cercare quello sfuggente modello di business che permette alle pubblicazioni di alta qualità di produrre contenuti di alta qualità».

E qui casca l’asino.

Il modello di business sfuggente. Di cui parleremo domani.