Liberi di sbagliare

Quanto costa una decisione sbagliata?

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L’ideologia del progetto (e del suo primogenito: il progresso) ha causato danni incalcolabili che probabilmente meriterebbero una nuova Norimberga, a patto di stemperare con un pizzico di umana comprensione.

Il futuro? Forse è solo una sequenza infinita di oceani blu in cui saremo liberi di sbagliare.

Tra i motivi più sottovalutati del perché l’economia non sia una scienza bensì una tecnica (più precisamente una forma di retorica), c’è un insistito, deliberato, inconsulto, sistematico, scellerato tentativo di non considerare seriamente i costi.  Concentrati sui futuri esiti dell’intrapresa e sul bisogno continuo di finanziarli, gli imprenditori non vanno troppo per il sottile e si prendono il rischio di incassare risultati di breve termine. Contemporaneamente chi si occupa in azienda di gestione e controllo, di rendicontazione, di ricerca e sviluppo, del reperimento delle risorse, mette al primo posto la crescita incondizionata, trasferendo le perdite potenziali, i rischi, le ricadute tecniche e collaterali in un futuro imprecisato, statisticamente banalizzato, assicurativamente scommesso e coperto, contabilmente spalmato, fissato a capocchia o fittiziamente archiviato. Un futuro innocuo e procrastinabile, in cui sperabilmente saranno già in tutt’altre faccende affaccendati.

La storia industriale del nostro paese è costellata da una serie ininterrotta di casi di questo genere. Lo racconta con grande maestria Giuseppe Berta, nella sua ricostruzione degli ultimi sei decenni: «Oggi direi che  a un periodo di sviluppo bruciante e convulso fa seguito una prolungata stagione in cui il Nord consuma e disperde le sue energie e le sue capacità».

All’insegna del progresso e dello sviluppo economico non ci siamo fatti mancare niente: dalle decine di progetti d’investimento assistiti nel mezzogiorno che hanno distrutto equilibri sociali e territoriali plurisecolari regalandoci cimiteri industriali che ancora gridano vendetta, alle miniere o alle raffinerie sarde. Sorvoliamo sull’ossessione predatoria di breve termine che ha caratterizzato la storia recente del sistema bancario e creditizio, sorvoliamo anche sulla opacità sovrana neo-feudale delle concessioni autostradali e stendiamo un velo di umana pietà sulle dighe che non ci sono più e sui paesi che si son portate via.

Che cosa hanno in comune tutte queste storie?

La mia ipotesi è che siano legate dal concetto che il futuro sia programmabile e controllabile nello spazio e nel tempo lineare. È il concetto stesso di progresso a contenerlo: un procedere indefesso in avanti, sulla scorta di bisogni calcolabili, programmabili ed eseguibili. Ingegnerizzati dalla A alla Z.

Consulto il dizionarietto di Giampaolo Barosso, in effetti non esattamente il primo vocabolario che vi passerà per le mani:

«Engineering. s. Ingegneria, con in più quel certo non so che. Human engineering, ingegneria che progetta esseri umani dotati di quel certo non so che.»

Più ancora del Gadda, massimo auto esemplare di ingegnere italico (nei disegni Milanesi c’è un gustoso «Claudio disimpara a vivere»), in questa definizione di Giampaolo Barosso c’è tutta l’ironia dell’umanista che abdica.

Ma tradotto ancora più nello specifico della nostra domanda iniziale sul costo delle decisioni sbagliate, queste vicende hanno in comune una totale disinvoltura nell’ignorare i costi di lungo periodo per le comunità di riferimento. La mia idea è che l’errore di fondo stia all’incrocio tra questi due effetti distorsivi cognitivi:

  • «To get things done, we tend to complete things we’ve invested time & energy in» (per dare un esito alle cose, tendiamo a portare a compimento quelle su cui abbiamo investito tempo ed energie)
  • «Loss aversion» (una certa refrattarietà alla perdita, ad ammettere il fallimento)

cognitive bias codex

[fonte dell’immagine]

Quando in Wolf abbiamo parlato di sistemi aperti e di sistemi chiusi non intendevamo dichiarare una nuova guerra di religione, che di quelle ne abbiamo già abbastanza.

Dobbiamo resistere alla tentazione italica di schierarci sempre e comunque in fazioni contrapposte e assai giudicanti e osservare meglio cosa è in gioco.

Il mondo sta cambiando e c’è una percezione diffusa e molto piatta di un dato di fatto scomodo: gli strumenti di prima non funzionano più tanto bene. Certo, lo scenario è drogato dal fatto che l’élite dei decisori è ancora largamente affezionata a metriche consolidate quanto obsolete. Il potere ama autoreplicarsi ed è molto diverso scegliere uno strumento adatto al contesto che evolve oppure uno adatto alla propria rendita di posizione. Un atteggiamento descritto molto bene da Antonio Pavolini nel suo «Oltre il rumore»:

«Da questa e da altre vicende si trae la netta sensazione che dal privato alle pubbliche amministrazioni, dalle grandi realtà alle piccole e medie imprese, il nodo chiave da affrontare abbia ormai preso definitivamente forma: la vendibilità delle pessime idee, dovuta alla persistente inadeguatezza del soggetto compratore, impedisce di affrontare seriamente un percorso sul quale prima o poi dovremo tutti incamminarci: quello dell’ecologia della transizione digitale. In cui chi prende decisioni si assume delle vere responsabilità, mentre chi finanzia le idee concorda prima gli obiettivi, li misura con metriche oneste e rilevanti, e ne valuta al termine l’efficacia e la replicabilità. Finché una maggiore conoscenza delle pratiche e degli strumenti, ma anche un più trasparente meccanismo di delega tra decisioni strategiche ed execution non si saranno fatti strada, questo nodo non potrà essere risolto.»

Se campo di advertising e il traffico è il mio signore e sovrano, ben vengano il click baiting e i suoi servi sciocchi. In fondo una testata puoi sempre decidere se farla per i lettori oppure per gli inserzionisti. Tenere insieme le due cose non è sempre ovvio e soprattutto non dura in eterno, altrimenti non sarebbe nato il wikibombing.

La non replicabilità in eterno dei vecchi metodi, la loro data di scadenza insomma, dipende molto dal tempo necessario affinché le nuove infrastrutture dell’informazione si consolidino giungendo a maturazione. Vediamone un esempio.

Quando Luca De Biase risponde alla lettera di un lettore sugli investimenti europei in tema di ricerca sulle tecnologie quantistiche afferma:

«…ma come la crescita della complessità e della velocità d’innovazione, anche il sistema dell’informazione si deve aggiornare per consentire all’ecosistema della ricerca, dell’industria e della finanza di sincronizzarsi col ritmo dettato dallo sviluppo della tecnologia più avanzata».

Soffermiamoci su questo sync: De Biase ricorda che l’ecosistema che comprende l’innovazione tecnologica, i media, la ricerca, la finanza e l’industria è alla ricerca di un piano di percorribilità. Mi sembra questo un buon modo per comprendere quanto sia difficile tenere insieme una visione del mondo contemporaneo e uno status update compatibile per ciascuno di questi piani e di questi linguaggi.

Quali sono gli strumenti in sincrono nell’ecosistema?

Esiste la terza legge della termodinamica: quando una cosa l’hai banalizzata il danno è fatto e non è più possibile restituirle l’armonia primigenia. Per questo un buon osservatore del mondo deve investire su strumenti di lunga durata, poco invasivi, altamente duttili e flessibili. Applicata allo sviluppo delle civiltà, il rischio entropia è talmente elevato che Nassim Taleb ha parlato apertamente di dittatura delle minoranze. Taleb ne è talmente convinto da definirla una regola: la minority rule (regola delle minoranze):

«The main idea behind complex systems is that the ensemble behaves in way not predicted by the components. The interactions matter more than the nature of the units. Studying individual ants will never (one can safely say never for most such situations), never give us an idea on how the ant colony operates. For that, one needs to understand an ant colony as an ant colony, no less, no more, not a collection of ants. This is called an “emergent” property of the whole, by which parts and whole differ because what matters is the interactions between such parts. And interactions can obey very simple rules. The rule we discuss in this chapter is the minority rule.

The minority rule will show us how it all it takes is a small number of intolerant virtuous people with skin in the game, in the form of courage, for society to function properly

Io ho paura che con gli strumenti possa prevalere la stessa logica. Se entriamo in quel tunnel sappiamo come va a finire: gli strumenti cattivi, rigidi, sono la minoranza intransigente che inietta entropia nel vivere associato. Per questo dobbiamo attivarci e mettere in campo le contromisure necessarie per tutelare la biodiversità del mondo.

Ci sono una miriade di oceani blu là fuori tutti da cartografare. Se usiamo gli strumenti sbagliati ho come la sensazione che faremo un pateracchio. Il primo rischio è il determinismo: rigidità rigidità rigidità. Con una spruzzata di autoreferenzialità. Il caso di scuola sono le piattaforme che per il solo fatto di esistere promettono soluzioni. Guardate ad esempio questo spot di IBM Q, la divisione che si occupa della commercializzazione dei quantum computer:

La fallacia logica qui è pensare che per il solo fatto di avere accesso ai dati e di avere la potenza di calcolo adeguata per estrarli e processarli istantaneamente comporti di per sé l’individuazione delle interpretazioni giuste.
Come possiamo evitare di incorrere in fallacie come queste?

Per esempio mettendo i costi dell’irreversibilità nel calcolo dei rischi.

Sceglieresti uno strumento che non ti garantisce di preservare il sistema osservato in caso di fallimento? E che dire, poi, se nel contesto di oggi, che domini e su cui hai preso la decisione giusta IN QUESTO MOMENTO, evolve e a posteriori quella stessa decisione si rivela nefasta?

Il rasoio di Occam suggerisce un semplicissimo criterio: se stai esplorando qualcosa che non conosci appieno, se non sai esattamente dove andrai a parare, dotarsi di strumenti chiusi è troppo rischioso.

Un esempio formidabile e famosissimo è il totale fallimento dei sondaggi elettorali sulle ultime elezioni presidenziali statunitensi.

Chi ha analizzato quel mondo pensava di dominarlo e ha adottato senza pensarci troppo un set di strumenti chiusi. Più o meno è la logica di IBM Q descritta prima:

Se quei tool avevano funzionato così bene durante le precedenti due tornate elettorali perché non usarle anche nel 2016?

Col senno di poi rispondere è facile: perché la griglia interpretativa vecchia si è rivelata troppo rigida e per nulla evolutiva. I fallimenti e i cambi di paradigma sembrano sempre improvvisi.

Quando invece sarebbe sufficiente tenere in conto che i processi evolutivi, quelli più innocui così come quelli più dirompenti per gli equilibri precedenti, seguono pattern emergenti molto semplici (i più comodi da seguire): la goccia d’acqua sul parabrezza scende lungo il cammino che oppone meno resistenza. Seguendo un pattern emergente e tutto sommato molto naturale (lo abbiamo descritto in Wolf #171).

Il metodo Fabula è un buon esempio di strumento aperto, che si progetta in itinere. Mafe de Baggis lo sta raccontando su queste pagine a mano a mano che lo elabora e lo mette a punto.

Se non vuoi rischiare il default, meglio fallire in fretta su prototipi a basso rischio sistemico. Quanto costa prendere una decisione sbagliata? Quante vite abbiamo nel videogioco del mondo? La nostra sete inestinguibile, la nostra caccia un po’ sciocca agli strumenti potrebbe orientarsi a partire da qui.

Mafe è donna accorta e ti consiglia tool minimali efficaci subito su scala quotidiana, ma se non hai paura della gigantomachia puoi guardare come ha esploso la stessa idea Improbable SpatialOS, la Gonzo startup britannica raccontata in questo bel pezzo di Oliver Franklin-Wallis su Wired UK:

«Improbable just became the UK’s latest $1billion tech startup. The inside story of its insanely ambitious plan to built virtual worlds, change the way we make decisions, and maybe one day build the Matrix.»

Come funziona? Praticamente è una palestra per il design thinking on steroids. La piattaforma ti mette a disposizione la possibilità di creare in cloud una miriade di mondi simulati che ricostruiscono ambienti complessi come le città. Proprio come in Minecraft tu esplori /costruisci il tuo mondo futuribile in scala 1:1 e implementi e testi una serie di soluzioni potendo permetterti di fallire senza rischi.

«Improbable’s platform, SpatialOS, is designed to let anyone build massive agent-based simulations, running in the cloud: imagine Minecraft with thousands of players in the same space, or researchers creating simulated cities to model the behaviour of millions. Its ultimate goal: to create totally immersive, persistent virtual worlds, and in doing so, change how we make decisions».

Ricorda nulla?

Praticamente è Westworld calibrato perfettamente sul design thinking.

La software house creata da Herman Narula mette a frutto l’esperienza maturata nei giochi di ruolo MMPORG, il machine learning, la progettazione in tempo reale con l’intelligenza artificiale per creare mondi simulati in cui prototipale soluzioni aperte, testarle, fallire in fretta, iterare con sempre nuove release. Un generatore automatico di sistemi aperti dove testare qualunque tool.

Anche il simulatore di mondi improbabili e fallibili può fallire e non nascondiamoci che il rischio supercazzola è notevole, ma te lo segnaliamo perché piattaforme così sono perfettamente consequenziali all’ecosistema uomo, macchina, media, big data verso cui stiamo prepotentemente andando. Tanto che la giapponese Soft Bank e altri investitori ci hanno appena messo su 500 milioni di dollari.

Se su Wolf#189 ci chiedevamo cosa fare dopo l’orgia, qui siamo alla metaprogettazione di infiniti mondi simulati orgiastici possibili. Tu dirai: eh ma così non vale, chi l’avrebbe mai immaginato? Come pensare l’impensabile, come calcolare l’incalcolabile?