Le community non sono software

Le community non sono software

Ho prestato ad Alberto Puliafito l’ultima copia del mio primo libro, uscito nel 2000 per HopsLibri. Il titolo è “Le tribù di Internet. Accelerare il web marketing con le community” e quando è uscito ho avuto l’impressione di aver aggiunto un mattoncino utile a una costruzione che stava già in piedi da sola: l’argomento del libro era (è) come applicare alle community aziendali ciò che abbiamo imparato dalle community spontanee e ludiche.

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Ai tempi non sapevo che avrei passato i vent’anni successivi a cercare (spesso senza successo) di spiegare e gestire le conseguenze di una delle convinzioni più diffuse e cioè che le community sono software ospitati su siti aziendali, di cui fanno parte ma soprattutto che sono uno spazio a parte (diciamocelo: un ghetto). Quella che a me sembrava una costruzione solida era in realtà uno steccato che stava in piedi con lo sputo: l’equivalenza tra community e software era imbattibile, alimentata sia dalle vendite di licenze ai tempi costosissime sia dalla comodità dell’idea di poter comprare, installare e configurare le relazioni con e tra i tuoi clienti.

Oggi, in piena maturità delle piattaforme di social media, che non richiedono licenze e installazioni, l’idea che le “online community” siano finite e obsolete è molto diffusa. Siamo sempre lì e forse, intitolando il libro “tribù” e non “community”, lo sapevo già: l’attenzione, ora come allora, era sullo strumento, non sulla relazione. La mia attenzione, ora come allora, era sulla relazione, non sullo strumento. Le community non sono i software che rendono possibile l’interazione, non più di quanto i matrimoni siano le case che ospitano gli sposi.

Anni dopo il libro arrivai alla mia definizione preferita di “community”: “gruppi di amici che ancora non si conoscono.” La ritrovo per la prima volta in una lezione fatta allo IULM nel 2009, unita a questa citazione che descrive perfettamente il tipo di appartenenza che ci permette di parlare propriamente di community (e, lo dico fin d’ora, vale in ambito professionale anche più di quanto valga in ambito personale).

Del club non aveva nulla, semplicemente amavamo Glenda Garson e tanto bastava per separarci da quelli che soltanto l’ammiravano.
Julio Cortázar, Tanto amore per Glenda

Le community sono gruppi di persone che hanno in comune un forte interesse per qualcuno o qualcosa; non un club, non una nicchia, non un elenco. Gruppi di persone, esattamente come i social network non sono software, ma reti di persone.

Non siamo qui per fare storia della rete, siamo qui perché la reazione di Alberto al mio libro mi ha fatto capire che sono di nuovo caduta vittima di quella che Steven Pinker chiama “la maledizione della conoscenza”, e cioè credere che tutti sappiano le cose che sai, che hai imparato, che hai capito. Che non ci sia più bisogno di dirle, anzi, che a dirle si rischi di annoiare, di far brutta figura, di sembrare una attaccata alle cose del passato. Facciamo che corro il rischio, ok? Da questa settimana, per un po’, racconterò su Wolf tutto quello che ho imparato sulle community e che non è stato superato dall’innovazione tecnologica. Cito da uno dei miei manuali preferiti:

  • “Ai primordi del web le esperienze di socializzazione erano chiamate community e consistevano in forum, gruppi, mailing list e chat. Amy Jo Kim, autrice ed esperta di community, li definisce luoghi di aggregazione legati a un posto (place-centric).
  • Le funzionalità di community permettevano alle persone di parlare e interagire e la relazione tra queste persone si basava sull’interesse comune che li aveva portati su quel sito. Le community si formavano intorno agli interessi e le relazioni evolvevano nel tempo.”
  • Christian Crumlish, Erin Malone (Designing Social Interfaces)

La distinzione che Crumlish e Malone fanno è tra “esperienze di socializzazione” e “le funzionalità che le permettono”. Oggi, come ben noto, queste funzionalità sono concentrate in pochissime piattaforme trasversali e generaliste (anche se molti forum continuano a vivere e a prosperare). A me, però, interessano le esperienze, non le funzionalità: in particolare sono vent’anni che lavoro per scoprire cosa spinge un cliente a partecipare alla vita di un’azienda e per progettare una presenza online che aiuti i dipendenti e i fornitori a vederli come “noi” e non come “loro”. Presenza umana, non tecnologica.

Una community, oggi, può anche non avere un luogo d’elezione e certo non dev’essere il sito di un’azienda; esistono a prescindere da luoghi e strumenti, anche se spesso in forma latente.

Come individuare e attivare le community latenti sarà la prima cosa che impareremo a fare insieme, per farlo nel migliore dei modi ti invito fin d’ora a fare molta, molta attenzione al mondo che ti circonda e a tutto quello che tu consideri “strano” e “stranamente diffuso”.