La memoria corta e il pubblico che decide

«La giuria di qualità ha premeditatamente attribuito voti per annullare i voti della giuria popolare, quando invece i voti della giuria popolare dovevano sommarsi a quelli della giuria di qualità. Attribuire una vittoria secondo il gusto di pochi, la giuria di qualità, a dispetto dei tanti, la giuria demoscopica, potrebbe costituire anche una forma di turbativa del mercato” oltre che, aggiungono, “una forma di tutoraggio culturale inammissibile»

Se ti dicessi che questo pezzo è relativo a Sanremo del 2019, probabilmente ci crederesti. Invece il pezzo continua così:

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«il verdetto delle due giurie del cinquantesimo Festival di Sanremo risulterebbe pesantemente messo in discussione e un’ombra si allungherebbe sul premio agli Avion Travel. Ma il Codacons non si ferma qui: dopo aver sollecitato l’intervento dell’ Authority, responsabile per le trasmissioni televisive, e della Procura della Repubblica per eventuali responsabilità penali circa la turbativa del mercato discografico, l’associazione ha infatti invitato tutti i cantanti che hanno partecipato al Festival a “ricorrere contro il risultato ottenuto visto l’annullamento del responso della giuria popolare”».

Era il 2000. E la musica era molto simile a quella del 2019. Non solo per quello che si ascolta sul palco dell’Ariston, naturalmente, ma anche per le polemiche che seguono un evento.

Se rileggiamo bene le frasi, c’è già, in nuce, quello a cui assistiamo oggi. Cioè, l’attribuzione della vittoria da parte di una “giuria di qualità” che sovrasta il giudizio “popolare”.

Torniamo indietro ancora, al 1996. Ci fu addirittura un’inchiesta della magistratura (trovi un sommario resoconto sull’archivio di Repubblica), perché Elio e le Storie Tese avrebbero vinto il Festival ma i risultati sarebbero stati manipolati dallo Pippo Baudo che allora era il conduttore. Da corruzione, l’inchiesta si derubricò a truffa. Non ebbe una fine, ma dalle pagine di quelle indagini si legge, per esempio, che

Dal conteggio delle schede nuovamente effettuato dai carabinieri è emerso che assai spesso i calcoli non sono esatti: vi sono schede nulle, non annulate e non siglate dal notaio, totali di voti non corrispondenti a quelli emergenti dalle schede.

Avviciniamoci ai giorni nostri, andando avanti e indietro nel tempo. Nel 2010 Avvenire documenta un’altra stranezza, questa volta nel televoto, che toglie la vittoria finale ad un trio che non è certo passato alla storia, fra cui figurava Emanuele Filiberto di Savoia.

Una storia vecchia, che si ripete continuamente, almeno a quanto pare. E che oggi sfocia nella polemica sulla vittoria di Mahmood, ancora una volta con la giuria di qualità che ribalta il giudizio popolare.

Aggiungiamoci un elemento per colorire un po’. Aggiungiamoci che in quel luogo strano che è la sala stampa del Festival (qualche aneddotica in merito l’ho raccontata sul mio blog personale) succedono da sempre cose che non sono esattamente edificanti per la categoria giornalistica. Cose che, coi social, signora mia, finiscono anche in pasto al pubblico. E così, oltre a tutta questa faccenda del voto popolare disatteso (che oggi, per ragioni politiche e sociali e per il mondo che è cambiato, fa molto più rumore che nel 1996, quando a indignarci per quel che veniva fuori eravamo pochissimi fan degli EELST), c’è un’immagine del giornalismo che si lede ancora di più quando Ultimo fa quel che fa – cioè il ragazzino rapper – e i giornalisti fanno quel che non dovrebbero fare, cioè i bulli.

 

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ULTIMO CONTRO I GIORNALISTI NELLA CONFERENZA STAMPA DOPO LA FINALE DI SANREMO 2019. CHOC. #Sanremo2019 Video Twitter NicholasD_Altea

Un post condiviso da Massimo Galanto (@massimogalanto) in data:

Come altro vorremmo definire qualcuno che, a un cantante che dice una cosa che può anche essere discutibile, risponde fischiando e con un «vaffanculo stronzetto» e altre amenità del genere? Atteggiamento isolato? Può darsi, ma comunque dannoso.

Prendo a prestito una riflessione su Facebook ancora di Rancilio

Non penso che nessuno ascolti più nessuno, per fortuna, ma sono d’accordo con il senso generale del post. E alcuni passi di questo intervento sono importantissimi ai nostri fini.

«Fate bene a spiegare perché avete votato Mahmood», dice Rancilio ai colleghi giornalisti «ma fareste bene anche provare a capire perché uno che ha Televotato da casa spendendo dei soldi si incazzi quando scopre che il suo voto praticamente non conta.

«Se volete aiutare davvero le persone a capire perché non basta dare tutto il potere al popolo col Televoto, dovreste ricordare ai lettori i brogli del 2010 (denunciati allora da un mio scoop – scusate l’immodestia) invece di alzare spallucce davanti a chi pensa che la maggioranza abbia il diritto di contare.
Potete trasformare Sanremo nei Grammy (dove votano solo gli esperti) o in un grande XFactor ma non potete fare finta che senza il voto popolare il Festival sia un’altra cosa e soprattutto che in America la credibilità di ogni singolo giurato vale oro, mentre da noi…
Ah, già: Mauro Pagani, presidente della Giuria degli esperti (contestata in queste ore) è super partes, ma tutti gli altri? E ancora: quando ricordate a Ultimo che quello di quest’anno era lo stesso meccanismo di voto dell’anno scorso, dovreste provare anche a ricordare che non tutti i giurati sono uguali e che (puta caso) se al posto della Dandini e della Raznovich fossero stati messi Diego Fusaro e Maria Giovanna Maglie il risultato non sarebbe stato lo stesso».

In questo pezzo che parla di Sanremo – come al solito, come pretesto –  hai la rappresentazione plastica di cosa significhino, rappresentino o potrebbero rappresentare una serie di cose di cui parliamo continuamente quando parliamo di come comunicare, ma che forse non riusciamo a incarnare in qualcosa di concreto:

  • la disintermediazione
  • la crisi delle istituzioni
  • la crisi della fiducia nelle istituzioni
  • la mancanza di ascolto da parte di chi cura il prodotto
  • i gradi di separazione fra il produttore e il consumatore che si sono ridotti
  • il mondo che è cambiato non perché “uno vale uno” ma perché è cambiato e basta

I due pilastri su cui ci si dovrebbe basare un prodotto che per vocazione è dedicato al pubblico, in un mondo dove questi elementi sono un fatto, sono ancora una volta due:

  • l’ascolto dell’altro (che passa attraverso la comprensione dei tempi che viviamo). Che vuol dire, come raccontiamo nel quaderno della progettazione digitale, ascoltare per capire
  • l’autorevolezza, che si conquista non più per diritto divino  o per legge o per oligopolio, ma perché si innescano meccanismi virtuosi che rendono il tuo brand (vale per il giornalismo, ma vale per qualsiasi altra cosa) autorevole e degno di fiducia. Una fiducia che si perde molto più velocemente rispetto alla fatica con cui te la sei guadagnata. Una fiducia che si perde in maniera semplicissima se non si è capaci di riconoscere la fortuna che si ha nell’averla ricevuta per contesto

È altamente probabile che al brand Sanremo non succeda assolutamente nulla di tangibile, dopo questa polemica. Come non è successo nulla nel 2010, nel 2000, nel 1996. Ma quel che ci interessa analizzare, qui, non è il prodotto-Festival. Quel che ci interessa analizzare è la dinamica che influisce sulle decisioni nel medio-lungo periodo che le persone prendono a proposito di un brand.

Chi decide che cos’è un brand? L’amministratore delegato? Il board? I responsabili marketing? I dipendenti dell’azienda? Nel caso della testata giornalistica, lo decidono i giornaliti? No.
Che cos’è un brand lo decide il pubblico. Da sempre, questo, non solo da quando ci sono i social, che pure hanno accelerato e facilitato determinate dinamiche – non necessariamente positive ma nemmeno necessariamente deteriori.

Quindi, il televoto non sarà sinonimo di democrazia rappresentativa, per carità. Ma se instauri in un prodotto televisivo un meccanismo che fa credere alle persone di essere protagoniste, poi devi fare in modo che funzioni.
Gli esperti ne sanno più del pubblico, per carità. Ma gli esperti devono essere davvero tali. E riconoscere intelligenza e altri tipi di esperienza nel proprio pubblico, nei propri clienti.

Hai voglia a fare esercizi di brand awareness, lead generation, prospecting, nurturing, hai voglia a progettare funnel di conversione, a cercare soluzioni introvabili. Bisogna partire da zero, ancora una volta dalla comprensione della realtà.