La guerra dei cloni

Snow è una app coreana simile a Snapchat. Secondo Techcrunch, Facebook ha provato a comprarsela. Se fosse vero – e non ci sono, per il momento, motivi per pensare il contrario – vorrebbe dire che a Menlo Park hanno una vera e propria ossessione per questo tipo di applicazioni. Un’ossessione già dimostrata dalla faccenduola delle Instagram Stories, dalla «new camera» di cui parlavamo ieri, da un Messenger testato in Polonia (sempre via Techcrunch) che è del tutto simile a Snapchat (o a Snow, parlando di cloni. Anche se in Corea ci tengono a dire che è molto diverso. Ovviamente è riadattato al pubblico locale, tanto per cominciare).

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Questo significa che, a tendere, Facebook potrebbe essere sempre più simile alla sua ossessione. Il perché è da ricercarsi forse in questioni psicologiche o forse nella convinzione che quel pubblico sia assolutamente da inseguire e che gli adolescenti rischino di essere un target già perso (altrimenti non si spiegherebbe questa rincorsa quasi affannata).

Quel che mi preme far notare, però, è che questo tentativo di clonare ciò che funziona altrove – o che si presume funzionare – non fa che distogliere dalla reale missione di Facebook. Che rimane quella di migliorare progressivamente l’esperienza di chi continua ad utilizzarlo.

Non solo: parlando di cloni, a Menlo Park si devono essere persi una delle mosse più interessanti di WeChat, di cui si parla da un po’ in via ufficiosa e che oggi fa bella mostra di sé in homepage di The Information. Siamo sempre in beta, ma quello che stanno facendo in Cina è molto interessante, visto che WeChat si sta – da tempo: ne parlavamo nel numero 37 di Wolf, in un pezzo dal titolo La Cina è We-Cina – trasformando in una Super App. Con l’ultima mossa di dare la possibilità agli sviluppatori esterni di realizzare una serie di applicazioni fruibili all’interno di WeChat, applicazioni sotto forma di servizi, che non vanno scaricate ma si possono usare direttamente dalla super app.

La mossa porta il colosso Tencent a fare concorrenza addirittura con l’Apple Store in Cina – gira voce, fra l’altro, che in casa Apple non l’abbiano presa per niente bene e che si siano rifiutati di accettare all’interno dello store questa nuova funzionalità di WeChat che si proponeva con il nome WeChat Application Account. Perché avrebbero ritenuto, appunto, che fosse un nome in palese concorrenza con il loro servizio principale. Già.

Eppure, fra tutti i cloni, WeChat è la app che sta seguendo le vie più originali: primi a consentire l’invio di denaro e la compravendita in app, senza tanti fronzoli e usando i bot per quel che servono – cioè: non per chiacchierare, ma per migliorare l’esperienza di chi acquista online, per esempio –, primi a immaginarsi questa serie di servizi ancora una volta in app: quella di WeChat è un’interpretazione radicale del concetto di walled garden, che segue le sue logiche e il suo sviluppo guardando agli altri come si guarda a dei concorrenti e non a modelli da copiare alla prima occasione, con una coerenza quasi impressionante.

A differenza di Facebook che ha clonato e acquisito (vedi Instagram e Whatsapp) e ora si trova con il piccolo problema di avere i dati dispersi in almeno tre applicazioni che prima o poi dovrà riunire, WeChat ha anche il vantaggio, con i servizi già disponibili e questa strategia delle micro-app interne, di tenere anche i dati per sé. È un modo di accentrare ma anche di trovare la propria via. Un’evoluzione quasi darwiniana. Che non fa di WeChat il bene, sia chiaro. Ma che la rende un’esperienza a suo modo unica e da studiare.

Altrove i segnali non sembrano analogamente interessanti. Twitter – per mani di Jack Dorsey – ha cercato di diventare come Facebook invece di puntare sulla diversità e sta finendo come sappiamo. Tutt’intorno è una guerra di cloni. È davvero quello di cui c’è bisogno? Personalmente, non credo che sia un bene. Né per l’evoluzione delle piattaforme né per le persone che le utilizzano. E nemmeno per la tanto decantata innovazione.

Forse la ricerca ossessiva della next big thing sta facendo davvero perdere di vista il fatto che si può far bene e meglio con la big thing che stiamo già vivendo/utilizzando/sviluppando?

Chissà cosa ne penserebbe Rosser Reeves.