La fine dell’inizio

Nel numero 191, parlando di Brand Advocacy, scrivevo della diffusione dello strumento su Facebook pensato per permettere (e quindi obbligare) la dichiarazione di una collaborazione a pagamento con l’azienda di cui si parla nel post. In altre parole, per palesare un contenuto sponsorizzato.

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Era una funzionalità in precedenza disponibile solo a editori, celebrity e aziende verificate e la decisione di estenderla a chiunque la richiedesse andava di pari passo con la stretta nei controlli nei confronti delle marchette non esplicitate.

Una presa di posizione esplicitata in un cambiamento nella policy che, dal 30 marzo, diventa: a creator or publisher’s content that features or is influenced by a business partner for an exchange of valueUno scambio, dunque, non necessariamente solo monetario.

Questa gestione del branded content permette al cliente taggato di avere accesso agli insights e quindi di vedere i dati sull’andamento del post: non solo un obbligo, quindi, ma anche un vantaggio. Il 26 aprile avevo provato a taggare Wolf in un post della mia pagina, richiedendo l’accesso alla funzionalità. L’operazione era andata a buon fine, nel senso che il «tag product» aveva funzionato, ma lato Wolf non era successo assolutamente nulla. Nessuna notifica, nessun accesso ai miei insights, nulla.

Passano i mesi, un po’ me ne dimentico, un po’ ci penso, temendo che la mia richiesta fosse finita nel dimenticatoio. Poi, un mesetto fa, la notifica.

Wolf, che in questa simulazione era il cliente, vede nella sua gestione di pagina i «Branded Content Posts», cioè quelli pubblicati da me. Li vede come se li avesse fatti lui, ma con un owner (io) diverso e con la possibilità di intervenire (Review Post) in caso di tag indesiderati o contenuti sbagliati.

La gestione di questa particolare forma di collaborazione tra aziende e autori/redattori/influencer a me sembra particolarmente riuscita.

Forse non è l’unico modo di obbligare chi scrive pezzi a pagamento per le aziende di dichiararlo, ma è un modo efficiente e trasparente.

L’accesso alle statistiche lo rende uno strumento più completo per le aziende della funzionalità di YouTube per dichiarare «This video contains paid promotion such as paid product placement, sponsorships or endorsement», anche se dal punto di vista degli spettatori la dicitura «include paid promotion» è più evidente e chiara che nel caso del «Paid» di Facebook.

In entrambi i casi però la strada sembra segnata: è la fine dell’inizio dell’era dei personal media, quella in cui singoli individui possono vendere pubblicità sui propri canali. Infanzia e adolescenza finite, adesso diventiamo adulti: non una garanzia di etica e maturità, anche perché è un passaggio forzato dalle due principali piattaforme di pubblicazione, ma un passo avanti.