La dovete smettere di scrivere, che qui non se ne può più

Questo titolo, un po’ aggressivo e non perfettamente centrato rispetto all’abituale tono di voce di Wolf, è perfetto per questo pezzo e mi è stato suggerito in una conversazione su Facebook da Andrea Zanni. Proseguendo con la lettura scoprirai perché si adatta così bene all’argomento che trattiamo qui.

Puoi seguire la conversazione seguendo il link, se lo desideri.

Di cosa parliamo qui e di cosa parlavamo lì?

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Siamo a fine 2020: dopo il caso Casey Newton, è esploso il micro-trend di Substack, che ricorda molto da vicino la corsa al blog, per chi c’era a quell’epoca. In un certo senso, visto che Substack ti aiuta, fra le altre cose, a mandare in maniera semplice newsletter è un po’ come se, aprendo uno spazio su Substack, tu ti aprissi una specie di blog che, invece di arrivare attraverso il Feed RSS, arriva alle persone che hanno deciso di seguirti via mail.

Che cos’è Substack? È una piattaforma fondata nel 2017 a San Francisco che ha una serie di enormi meriti:

  • ti rende facile crearti una pubblicazione personale
  • ti rende facile mandarla via newsletter
  • ti rende facile metterla a pagamento con una serie di opzioni
  • ti evita di doverti occupare della parte tecnologica e della parte burocratica

Siccome a Substack interessa crescere, se hai una pubblicazione gratuita, allora stare su Substack non ti costa nulla.

Se invece fai una pubblicazione a pagamento (o con modello misto, per esempio un articolo gratuito a settimana, gli altri a pagamento), allora Substack trattiene

  • la percentuale sulle transazioni di Stripe – il provider che hanno scelto per i pagamenti attraverso carta di credito (niente Paypal)
  • il 10% per sé

Le percentuali, per darti un’idea, sono le medesime che trattiene Steady, il provider che utilizziamo qui su Wolf e su Slow News.
Con una differenza fondamentale: Steady va integrato su WordPress, Substack invece ti da proprio tutto.

E infatti la sua promessa di valore si basa su tre elementi fondamentali.

La possibilità di crearti la tua lista di persone cui mandare le tue mail. La possibilità di aggiungere strumenti di pagamento senza competenze tecniche, decidendo in maniera facile cos’è gratuito e cosa va “sotto paywall”, cioè per abbonati.
E poi, be’, poi ovviamente ci sono i ricavi, che crescono con la tua community. E Substack ti mette a disposizione anche una serie di strumenti per gestire la community.

Non ti stupirà scoprire che ha iniziato a fare qualcosa di simile anche Facebook (per la precisione, dal 30 di giugno 2020) dando la possibilità ai creator di contenuti di ricevere ricompense sotto forma di membership o di stelline di apprezzamento (che valgono 0,01 $). In questo caso non parliamo di newsletter ma dei lavori di contenimento, copia, conquista che Facebook attua sistematicamente da quando ha clonato le funzioni di Snapchat in avanti: la piattaforma di Zuckerberg punta a diventare un ulteriore punto di riferimento per streamer, ponendosi ulteriormente in concorrenza con YouTube e, naturalmente, con Twitch.

Nelle previsioni per il mondo del giornalismo del Niemanlab – dove ogni anno trovi un po’ di tutto e pure il suo contrario: lo dico da grande fan di quegli spazi predittivi – si parla già del lato oscuro di tutto questo. Che non riguarda solo il giornalismo, ma tutto il mondo dei creator.

Ma quale sarebbe, allora, questo lato oscuro? Quello che scriverò è solo parzialmente quel che trovi sul NiemanLab ed è perlopiù una mia rielaborazione personale, con elementi aggiunti per dare conto della complessità del lavoro che c’è dietro la semplicità di Substack

  • la fatica enorme di far da soli. Perché lo so che Substack ti sembra una bellissima community di creatori. Ma se inizi la tua avventura personale, sarà un’avventura solitaria. Che è bello, bellissimo per un po’, soprattutto se fai parte di quell’eccellenza che riesce a ritagliarsi in poco tempo sostenibilità economica (vedi Ben Thompson, per esempio, che però lavora tranquillamente per i fatti suoi sul suo sito personale);
  • il rischio di burnout nella ricerca di nuovo pubblico, perché anche se Substack è tutto facile c’è una cosa che non ti dice la sua value proposition. Substack è uno strumento. Non è pensato per far crescere il tuo pubblico, è pensato per consentirti di servire il pubblico che hai già. E allora, come si fa a far crescere questo pubblico? Semplice: è altro lavoro;
  • il rischio di burnout per la consegna con regolarità del contenuto. Nel 2018 c’è stata una vera e propria “fuga di massa” dei creator, che non ne potevano proprio più (questo pezzo su Polygon è emblematico) di produrre contenuti su contenuti, perché certe volte non hai poi così tanto da dire di nuovo, eppure hai la sensazione che il tuo pubblico, che ti paga, che si fida di te e al quale hai dato un appuntamento voglia proprio che tu esca regolarmente, sempre. È una sensazione che abbiamo provato e proviamo anche qui su Wolf, dove siamo costantemente alla ricerca del corretto equilibrio. Che non abbiamo ancora trovato, perché, fra le altre cose, siamo in Italia, scriviamo in italiano, abbiamo un mercato di riferimento molto ristretto e, in quanto servizio a pagamento (non prodotto, servizio), che però usa come veicolo anche i contenuti, patiamo la concorrenza di tutto ciò che è gratuito, cotto e mangiato, veloce, che nutre il tuo bisogno di sapere le cose qui e ora e di non perdere tempo dietro a contenuti lunghissimi o a corsi interi che hai la sensazione che non seguirai mai. È per questo che l’approccio informativo di Wolf deve spostarsi sempre di più su un piano consulenziale-relazionale e il contenuto, che pure resta, deve essere un pezzo del tutto. Pensa a quanti ragionamenti bisogna fare, per cercare di mantenere il proprio pubblico e di farlo crescere;
  • il contenuto non conta nulla senza la delivery corretta (ecco perché su Wolf abbiamo un intero corso di consegna del contenuto). Su Substack consegni il contenuto in maniera elegante, semplice, rapida: non hai molto da fare per migliorare, ci vuole davvero poco. Ma c’è un pezzo di contenuto che è difficilissimo da consegnare, ed è il contenuto che ti serve per portare persone a iscriversi. Magneti, presenza digitale, abitare gli ecosistemi social, abitare le nuove piattaforme per portarti a casa nuovo pubblico. Per darti l’idea di quanto lavoro ci sia dietro questa parte, sappi che – probabilmente lo noterai autonomamente, ma ci tengo a dirlo per trasparenza – lo stesso Wolf che leggi o ascolti non rispetta tutte le buone pratiche della consegna del contenuto. Perché il tempo è una risorsa scarsa;
  • il contenuto e la delivery corretta non contano nulla senza la relazionalità. E il grado di relazionalità che devi stringere con una persona disposta a pagare per leggere i tuoi contenuti è un grado che nessuno strumento può creare. Lo devi creare comunque tu, non lo farà nessun altro per te. Certo: magari dopo un po’ potrai pagare qualcuno per darti una mano, riconoscendogli una parte degli introiti. Ma allora sarà un qualcuno che dovrà far parte del tuo piano di sostenibilità e di crescita;
  • gli strumenti come Substack (o il prossimo che nascerà) non servono a moltiplicare l’audience. Quando lavoravo in Blogo come direttore, uno dei miei compiti principali era portare traffico sui siti di Blogo usando tecniche SEO (è anche per questo che la SEO è uno degli argomenti più sviluppati su Wolf e ha addirittura due quaderni, uno base e uno avanzato). Ebbene: una delle più grosse battaglie che dovevo sostenere a fine anno, quando si definivano gli obiettivi dell’anno successivo, era contro l’obiettivo del +20% di traffico da ottenere nei confronti dell’anno precedente. I clic non si moltiplicano per magia o partenogenesi. Figuriamoci il pubblico pagante
  • la cannibalizzazione e la saturazione dell’offerta dei contenuti. Viviamo già nell’era della sovrapproduzione di contenuti. Ci sono persone che seguono Wolf che non riescono a seguire nemmeno la produzione rarefatta del 2020. Altre che mi scrivono per dirmi che hanno scoperto pezzi dall’archivio che non avevano mai visto. Altre che gioiscono per la lettura del pezzo, che fa risparmiare loro tempo visto che mentre ascoltano possono fare altro. Altre persone che trovano troppo invasivi i corsi in video, perché non riescono a fare altro mentre li seguono o per altri motivi comunque legati a praticità, velocità, opportunità di fruizione del contenuto;
  • l’individualismo sfrenato. Intendiamoci, vorrei essere chiaro: sono da sempre un grande sostenitore dell’opportunità di farsi il proprio progetto personale. Ma sono anche un grande sostenitore dell’idea di comunità, di mutuo soccorso e sostegno, di fare rete, di lavorare anche in termini di coopetition, di condividere sforzi, pareri, opinioni, fatica, oneri e onori con altre persone con cui condividi anche i valori
  • c’è poi il tema Substack vs blog: Tom Chritchlow, in questo pezzo dove pure cita la teoria dei 1000 fan di Kevin Kelly (la trovi in questo post del 2008) e dice che Substack non è pensato per aiutarti ad allargare il tuo pubblico, fa un po’ il nostalgico e dice che il blog sarebbe meglio di Substack, per una serie di ragioni fra cui il fatto che il blog ti consente di spaziare fra gli argomenti e di ampliare naturalmente il tuo pubblico. Per me è vero se e solo se con il blog ti metti a fare strategie serie di delivery dei contenuti. Altrimenti, anche il blog, come qualsiasi altra emanazione del tuo io corporeo che proietti nello spazio digitale, è fine a sé stesso
  • la fiducia cieca nello strumento e nella tecnologia. Lo strumento è quel che è: uno strumento, appunto. Un tool, se vuoi chiamarlo all’inglese, ma non cambierà la sostanza. Non ha poteri magici, non risveglierà per te oscure forze per far si che le persone si aggreghino meravigliosamente intorno al tuo progetto come se niente fosse, non lavorerà al tuo posto, non ti farà trovare la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno né 1000 fan veri. I 1000 veri fan li devi convincere tu con quel che fai. E ritorniamo alla difficoltà, alle pressioni, al rischio di burnout
  • i contenuti sono un oceano rosso stagnante. Non sono un oceano blu. Lo diventano se e solo se fai quello che fai meglio di tutti gli altri che giacciono nel tuo stesso oceano e se quel che fai ti porta a costruire un’innovazione di servizio che molto spesso, scoprirai, è più legata alle persone che erogano questo servizio rispetto alla tecnologia e agli strumenti che usano. Certo, questo non vale se stai cercando di fare una piattaforma scalabile. Ma allora, se stai cercando di fare una piattaforma scalabile – o qualsiasi altra cosa di scalabile – non impelagarti nemmeno con l’idea di vendere contenuti. Tanto, persino i giornali hanno sempre e solo venduto relazioni

Che cosa ti semplifica Substack, in tutto questo? Be’, la parte tecnologica e quella burocratica, dei pagamenti e delle fatture, se parti con l’opzione a pagamento. Mentirei se ti dicessi che è poco.
Pagherai questa semplicità con il fatto che Substack ti renderà dipendente da sé (come tutte le piattaforme terze).

Ma allora, potresti chiedermi: Substack sì o no?

La risposta è: è la domanda sbagliata.
La domanda giusta è: qual è lo strumento (o quali sono gli strumenti) di cui devo dotarmi per il progetto che voglio portare avanti, di cui ho definito chiaramente identità e pubblico, ragion d’essere e visione e strategia?
Se la risposta è Substack, benissimo! Basta aver fatto i compiti prima.

A proposito: hai capito, vero, perché il titolo di questo pezzo è “La dovete smettere di leggere, che qui non se ne può più”?


Foto di Rafaela Biazi su Unsplash