Il discorso di insediamento di Mario Calabresi a Repubblica

Mario Calabresi ha parlato per un’ora il 19 gennaio 2016, in occasione del suo discorso d’insediamento successivo al passaggio di consegne fra Ezio Mauro e il neo-direttore di Repubblica.

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Visto che Repubblica.it è il principale sito di informazione giornalistica in italia, ho pensato che fosse un bel servizio, per te che leggi Wolf, poter disporre di questa trascrizione. A parte un paio di aneddoti riassunti e qualche forma colloquiale, il testo è assolutamente fedele (cioè, non solo nella «verità sostanziale») al discorso di Calabresi. In alcuni casi ho lasciato le forme super-colloquiali. I grassetti che dividono idealmente in capitoli sono del sottoscritto. Ho aggiunto alcuni link per rendere più comprensibili alcune cose. Il commento è a seguire e sarà per forza di cose in evoluzione.

Mario Calabresi presenta il piano editoriale a Repubblica

«Oggi cercherò di farvi un discorso di come io penso e vedo il futuro di questo giornale e quello che credo ci sia da fare». Il discorso di Calabresi inizia così. Il neo-direttore di Repubblica, poi, annuncia la presentazione di piano editoriale e linee guida, incontri in due settimane di tutti i settori e tutti i colleghi e poi, dopo due settimane [ne è già passata più di una, ndr] «incontrerò il cdr per dare la parte pratica e attuativa alle cose che dico oggi». Seguirà quindi un tour di tutte le redazioni locali.

«Veniamo dalle celebrazioni dei 40 anni di Repubblica, che sono state belle, un momento di orgoglio, di rivendicazione di quello che è stato fatto. È stata una festa e nelle feste si è sempre contenti, è tutto bello, tutto positivo».

Scenario di crisi

«Io però partirei da una cosa non per deprimervi, ma semplicemente perché siamo giornalisti e abbiamo il dovere di guardare il mondo fuori. Se ci pensiamo succede una cosa che succede in tutti i giornali: noi siamo dei severi analisti del mondo fuori, di cui evidenziamo le difficoltà, le crisi, poi però siamo sempre abbastanza incapaci di analizzare quello che è lo stato del nostro mondo, quello per cui lavoriamo e in cui viviamo».

«Bisogna partire da dei dati di verità. E i dati di verità di tutto il mondo occidentale, non di Repubblica, di tutta l’editoria italiana, l’editoria europea, l’editoria del mondo occidentale ci dicono che negli ultimi dieci anni è successo qualcosa che possiamo anche dire di apocalittico, è cambiato completamente il nostro mondo. Le copie cartacee in un decennio si sono dimezzate e in nove anni – prendiamo l’anno pre-crisi – se noi prendiamo il 2007, i ricavi si sono dimezzati. Non è da poco.Nel 2007 il totale dei ricavi di Repubblica era 430 milioni. Adesso siamo 200 milioni sotto. Ci sono stati gli aumenti di prezzo, che in parte hanno compensato il crollo dei ricavi diffusioni.

Ciò che ha perso di più ovviamente è la carta. In diffusione e in pubblicità. La pubblicità della carta si è dimezzata. Ci sono dei dati anche belli da cui partiremo a ragionare, cioè che sono raddoppiati in sei anni i lettori digitali e sono più che raddoppiati i ricavi digitali. Il problema è che se da una parte abbiamo perso 200 milioni, dall’altra siamo passati da 14 a 35: ne abbiamo guadagnati 20».

«Questo, comunque, è un gruppo che grazie anche a impegno e sacrifici della redazione è un gruppo che non perde soldi e che ha azzerato l’indebitamento. Che è una cosa che deve far ben sperare sul futuro».

«Noi siamo in un quadro in cui c’è stato un cambio tecnologico fondamentale. Ma chi dà tutta la colpa del calo delle copie alle tecnologie, secondo me, sbaglia [in merito si vedano l’editoriale di Stefano Lorenzetto e l’intervista a Umberto Brindani, ndr]. Bisogna farsi anche un esame di coscienza. Perché siamo all’interno anche di una grande crisi di fiducia dei lettori».

Fiducia

«Ieri è uscita una ricerca annuale che fa una società americana che si chiama Edelman e fa 33mila interviste i 28 paesi sul concetto di fiducia. [Si tratta del Trust Barometer 2016, ndr]

La parte che riguarda l’informazione ci dice che il 63% delle persone dice di fidarsi di quello che trovano su Google News e il 53% invece dice di fidarsi delle testate tradizionali online. Se volete questa è una cosa ridicola: Google News è un aggregatore. Si fidano di più di un aggregatore che però aggrega cose che sono di testate tradizionali.

E allora uno dice: ma com’è possibile questo? Però invece di interpretarlo come un dato ridicolo, dovremmo interpretarlo in un altro modo. C’è una diffidenza verso i giornalisti. Noi dobbiamo fare i conti con questo. Dobbiamo smettere di pensare che siccome noi siamo giornalisti, siccome ci piace il nostro mestiere, allora noi siamo infallibili e se non piacciamo più alla società è colpa della società. È come quando se non ci piace come votano gli elettori allora è colpa degli elettori: i politici se la prendono con gli elettori, ma forse dovrebbero cominciare a preoccuparsi che non stanno facendo le cose bene».

«E questa crisi di fiducia, c’è un altro dato fondamentale. La cosa di cui le persone oggi si fidano di più, il 78% – ma qui le ricerche sono decine. Ce n’è una molto bella, per esempio, che ha fatto un sito italiano, che è Valigiablu [qui il questionario, qui invece i risultati dell’indagine, ndr] – le persone si fidano soprattutto delle cose che gli vengono segnalate da amici, da parenti. Cioè la condivisione».

«Il prodotto poi, probabilmente, è sempre lo stesso, il nostro. Però il fatto che ci sia l’intermediazione di una persona di cui mi fido cambia il sentimento. Io penso che questa non sia una cosa irreversibile. È un problema, ma non è una cosa irreversibile. E noi abbiamo un dovere per il nostro futuro. Che è quello di ricostruire fiducia. Si fa in molti modi».

Trasparenza e citare le fonti

«Prima di tutto, essendo trasparenti. Bisogna essere trasparenti. Bisogna essere credibili. Per me “trasparenti” vuol dire questo (sono cose basilari). Vuol dire per esempio dichiarare sempre le fonti da cui si prendono le cose».

«Dichiarare, se c’è una cosa che si è trovata su una ricerca, un libro, un altro giornale, dove si è trovata.
Datare dai luoghi in cui si è. Datiamo se siamo nei posti. Se non siamo arrivati in un posto, se non siamo arrivati a Teheran ma siamo al Cairo a far scalo, datiamo Il Cairo. È serio così. Se siamo a Genova e scriviamo un pezzo su Londra, non è che dobbiamo mettere Genova per forza, ma non scriviamo Londra».

«Perché il valore del giornalismo, se è, come io credo, esserci e testimoniare, altrimenti non ha più valore quando andiamo nei posti. Se poi andiamo in posti difficili, pericolosi, perché quando poi il lettore si è accorto che… perché poi oggi i social e tutto il resto hanno, grazie al cielo, un controllo, una capacità di incrocio dei dati molto veloce. Molto puntuale. Allora poi noi togliamo valore a quello che facciamo davvero, a quando siamo nei posti. E penso che la trasparenza sia anche raccontare al lettore che stiamo andando a Teheran e che magari siamo bloccati alla frontiera e non siamo riusciti a entrare perché non ci hanno dato il visto. Ma dalla frontiera vi racconto questo. Io penso che il valore dell’essere accountable, dell’essere trasparenti, sia un valore fondamentale che va ricostruito. Poi bisogna essere non arroganti».

Arroganza vs. saper sbagliare

«Tutto quello che stiamo vedendo in politica, non è che noi siamo immuni. Se le persone in politica non sopportano più alcune verticalità ma vogliono società orizzontali in cui uno è uguale a uno, la pretendono anche dai giornalisti, dall’informazione. L’arroganza è tragica se poi negli articoli ci sono errori, sciatterie, cattive interpretazioni, milioni scambiati per miliardi. Se uno vuole essere credibile, deve essere preciso, puntuale. Deve avere la capacità di correggersi. Si può sbagliare. Però bisogna correggersi. Bisogna correggersi e bisogna farlo normalmente, serenamente, pubblicamente. Bisogna essere capaci di utilizzare un linguaggio chiaro. Non per addetti ai lavori. Non che parli semplicemente a un piccolo gruppo, per iniziati».

Linguaggio

«Siamo in un periodo di grande trasformazione, per i linguaggi. E nei giornali tu trovi un giorno “la sindaco” un giorno “la sindaca”, un giorno “il sindaco”. Allora mi piacerebbe aprire un lavoro serio in questo giornale, confrontandosi con le persone che più se ne occupano, per trovare dei codici di scrittura oggi che interpretino, rispondano ai cambiamenti che ci sono nella società e che diano anche un’uniformità al linguaggio. Molti si ricorderanno che avevamo fatto l’Arletti Citati [si tratta del Manuale di stile e glossario: la Repubblica, di Claudia Arletti e Stefano Citati), ndr], bisognerebbe rifare l’ Arletti-Citati. E rimetterlo al passo coi tempi. Discutendo e aprendosi alla società in questo».

Competenze e unisci i puntini

«E poi la sfida per ricostruire la fiducia è la sfida della competenza. L’altro giorno c’è stato il direttore del Financial Times che ha fatto un bellissimo discorso a Tokyo, al Nikkei [la trascrizione integrale del discorso si trova sul sito del Financial Times, ndr], e ha detto che i migliore scoop che si può fare oggi nel giornalismo in cui le notizie ormai circolano come merce gratuita è lo scoop dell’interpretazione, cioè del far comprendere le cose, del capire le cose. E dice: «Oggi il mondo, le notizie, sono una somma di puntini. Tutti hanno i puntini, le mille cose che succedono. La capacità del giornalista, oggi, è unire i puntini. I famosi disegni che facevamo da bambini: unisci i puntini e vedi l’immagine. Restituire l’immagine al lettore con la capacità di unire i puntini. Spiegare la complessità. Io penso che questo sia il ruolo di un grande giornale: mettere insieme le cose, dare spiegazioni, dare contesti, non cavalcare le emozioni. Riuscire a capire se quel fatto che stiamo raccontando è un fatto che scarta dall’ordinario, qual è il contesto che ci sta intorno, perché». [A proposito di unire i puntini e dell’enorme flusso delle notizie, suggerisco questa lettura su Medium, ndr]

« Nell’editoriale dell’altro giorno dicevo che a me piacerebbe un giornalismo che è di denuncia ma che accanto alla denuncia è capace anche di dare delle soluzioni, di proporre dei modelli alternativi. Vi faccio un esempio. La settimana scorsa abbiamo fatto un paginone sul digiuno culturale. Era molto interessante. Il punto però è che quando uno lo leggeva aveva una sensazione disperante, alla fine. Perché il titolo era: «Non leggono libri, non vanno a concerti o a teatro, ignorano le rassegne e il cinema. Ecco chi sono gli italiani – 1 su 5 – per i quali nel 2015 arte e letteratura sono rimasti un pianeta sconosciuto. Per scelta» [il pezzo si trova in questa rassegna stampa in pdf, ndr]. «E poi uno legge e vede che molti sono poveri, pensionati, persone che non hanno accesso alla cultura».

Coinvolgere e trovare il paese che funziona

«Allora io penso che accanto a questo, che era una cosa interessante, ci debba essere la preoccupazione di coinvolgerli. E allora trovare – c’erano due righe nel pezzo – esempi virtuosi di diffusione di cultura, storie di frontiera, perché ci sono un sacco di posti dove non arriva niente. Dove c’è soltanto la televisione. Ma dove non c’è mai un teatro, non c’è più un cinema, non arriva una rassegna di letteratura, dove non si presenta un libro. E allora io penso che quello va bene ma che lì si dovesse sentire, per esempio, era citata nel pezzo, la mostra degli Uffizi che è andata a Casal di Principe. E a Casal di Principe è stata un grande successo, nella terra dei casalesi».

«Allora è quello che bisogna fare trovare chi sono le persone che cercano di invertire la tendenza. Perché altrimenti – ma capita anche a voi – voi non avete alla fine della lettura del giornale un senso di sfinimento? Cioè, non c’è più niente da fare, che paese viviamo, ti viene da chiudere il giornale e da chiudere il paese. Ma il paese non è tutto così. Andate in giro nel paese. Parlate con le persone. È pieno di gente che si alza la mattina e ci prova, che fa, si inventa cose nuove. io vorrei raccontare anche quel paese. Vorrei davvero che noi fossimo anche quelli che dicono: «Esistono le persone che ci provano nel paese. Che costruiscono pezzi di bellezza, che fanno funzionare. Nelle scuole, negli ospedali». Io penso che questa sia la sfida che abbiamo davanti dal punto di vista culturale».

Sfida

«Dobbiamo però sfidarci. Sfidarci vuol dire coltivare dubbi. Tendo a sfidare molto quando qualcuno arriva e dice: «Abbiamo questa notizia», tendo a sfidarlo e dire: «Ma sei sicuro? L’hai controllata, com’è». Penso che il mestiere sia questo: mettersi in discussione, sfidarsi».

«Faccio l’esempio di un sito, che è Politico  – uno si immagina che su un sito, che è digitale, tutto venga pubblicato in velocità. Invece, chi scrive su Politico deve passare due specie di commissioni giornalistiche, prima quella del suo caporedattore e poi quella della direzione in cui il pezzo viene sfidato. Gli si fa tutta una serie di domande, se il pezzo regge allora è solido, oppure lo rimette a posto e poi il pezzo viene sfidato di nuovo».

«Però non è che la persona si sente offesa «hanno messo in discussione le mie fonti, hanno messo in discussione me». No, perché quello che esce poi è solido, a quello che esce ci si può agganciare per raccontare la realtà, quello che esce tiene. Noi dovremmo avere quest’ambizione. E penso che una delle cose più belle che ci potrebbe capitare è scoprire che le cose non sono come appaiono inizialmente. Trovare che le cose sono diverse. Magari ci stupiscono, non sono come le abbiamo immaginate, come le abbiamo pensate. Ma vivaddio. La vita è bella perché le cose non sono sempre uguali. Altrimenti sarebbe una noia infinita».

«E quindi secondo me dobbiamo dare per prima cosa una risposta a questa crisi di fiducia.

Trasformazione tecnologica

«La seconda è una risposta alla trasformazione tecnologica. I conti di questo giornale sono a posto, però potremmo trovarci di nuovo fra due anni in una situazione di difficoltà. Siccome abbiamo imparato delle cose, io, insieme a voi, non ho voglia di vivere alla giornata, aspettare che qualcuno mi chiami e mi dica “dobbiamo fare un nuovo stato di crisi”. Io l’ho detto chiaro, all’amministratore delegato di questa società, agli editori. Vorrei costruire e andare avanti e cercare di portare questo giornale nel futuro senza pensare che la soluzione sia nei tagli ma pensando che la soluzione sia la crescita. E penso che la crescita si possa fare, paradossalmente, anche sulla carta».

«Origami vende il triplo di quello che si era previsto vendesse. si è pagato nei primi 10 numeri le spese di tutti costi che avrà nel primo anno di vita».

Nicchie

«Questo significa che esistono delle nicchie, ma bisogna interpretarle. Esistono delle nicchie in cui c’è gente che chiede lettura, approfondimento, cultura. Io vorrei che producessimo un settimanale culturale. Di consumi culturali, di approfondimento. Vorrei che questo diventasse il ruolo della riflessione. Io sono convinto che la carta abbia ancora un pezzo di strada. Ma noi non possiamo fare un gigantismo di carta che è sostanzialmente la riproposizione del flusso del sito. Non possono stare insieme queste due cose. Noi dobbiamo dedicarci a una carta che sia curata, più asciutta, più scelta. In cui io penso che la stagione del gigantismo sia finita» [Sulle nicchie, ti propongo questo mio vecchio elogio della verticalità e il Boston Globe che si apre le verticalità, ndr].

Gigantismo

«Che cosa vuol dire la stagione del gigantismo? Io ho preso tutti i giornali europei dopo il Charlie Hebdo. I giornali inglesi il giorno dopo hanno fatto 4 pagine, i tedeschi in media 4 pagine, i francesi 6 pagine, gli spagnoli (El Pais, El Mundo) 8, i giornali italiani ne hanno fatte 18.

C’è qualcosa che non funziona. Pensate ai lettori, ma pensate a voi come lettori. Ma voi 18 pagine su un argomento ve le leggete? Ma come fate a leggere 18 pagine su un argomento. Forse c’è un pensionato, qualcuno che non si può muovere, un ergastolano che si legge 18 pagine. Ma altrimenti una persona normale non può leggere 18 pagine. E lo sforzo chiesto a una redazione per scrivere e impaginare 18 pagine fa sì che quelle 18 pagine non potranno mai essere di qualità.

Ma questa non è una messa in discussione dei giornalisti che le passano e le scrivono. È che il sistema non può reggere 18 pagine su un argomento. Lo sforzo è quello di scegliere – non dico di farne 4, mi sembrerebbe uno snobismo eccessivo, soprattutto in Italia. Proviamo a portarle a 8, 9, però quelle cose che ti dico, ti do il messaggio che tu hai avuto già quest’orgia informativa che ti ha invaso ieri, io ti dico: questi 8, 10 pezzi sono le cose indispensabili, sono i puntini uniti per comprendere, per capire quello di cui c’è bisogno. Tu, dalla lettura di questo giornale, avrai capito come sono andate le cose».

«Ma anche articoli piccoli. Mi porto sempre dietro un pezzo del Financial Times che era sulla strage dell’hotel in Mali [dovrebbe essere questo, ndr]. Ho letto questo e ho capito tutto e mi ha soddisfatto. Spesso vedo sui giornali internazionali pezzi di 40 righe a tre firme. In Italia è un problema far fare un pezzo di 40 righe a una persona, perché sembra una diminuito, quando poi ci sono, invece, articoli da 20 righe che, se sono scritti bene, sono centrati, sono portatori di intelligenza, curiosità, comprensione.

Questo non vuol dire che bisogna fare tutti pezzi d 20 righe. Bisogna non fare tutti i pezzi da 100 righe. Ci vogliono pezzi da 20, racconti, reportage da 100. Il punto è scegliere. Non tutto uguale, altrimenti uno è perduto. Il lettore è perduto. Cosa guarda? Ha il tempo limitato. Lo sapete che oggi l’unica battaglia vera è la battaglia sull’attenzione del lettore, sull’attenzione e il tempo dei cittadini. Allora l’attenzione dei cittadini la ottieni se puoi dirgli: qui puoi capire in 20 righe, poi se hai più tempo io ti do la possibilità di avere un’esperienza approfondita».

«Ma guardatevi la prima Repubblica: i primi numeri di Repubblica. Guardate i pezzi com’erano.
Barbara Spinelli, 50 righe. Però era scritto perfettamente e ti spiegava cos’era successo in una crisi dei missili fra URSS e USA. C’era l’intervista all’Avvocato Agnelli: apertura in prima e due colonne a pagina due. Sarebbe uno snobismo tornar lì, però c’è dentro quello che è necessario. Ripuliamo il rumore di fondo. Concentriamoci su quello che è utile raccontare e spiegare. su quello che è utile raccontare alle persone».

Il digitale

«E poi il punto fondamentale è naturalmente il digitale. Il giornale non è solo la carta. È scontato dirlo ma è necessario ripeterlo: un giornale non è più solo la carta. Tutti, se uno vi chiede che cos’è il giornalismo a cena, dite “è il sito, la carta, tutto insieme”. Poi però quando arrivate qui la mattina, la gran parte di noi fa gli stessi riti che faceva 10 anni fa, 20 anni fa, 30 anni fa. Però poi quando usciamo ci comportiamo come gli altri».

Perché tutti poi leggiamo sul telefono le notizie, guardiamo lì, leggiamo anche pezzi lunghi lì. Dal mio dentista, per volare alto e fare citazioni colte, non ci sono più le riviste, non ci sono più i giornali. Allora io ho chiesto alla segretaria del dentista come mai non ci sono più le riviste e lei mi ha detto: “nessuno le leggeva più”. In che modo lo avete deciso? Lo ha capito perché nessuno apriva il cellophane delle riviste in abbonamento. E cosa fanno? «Guardano tutti il telefono, in sala d’attesa». C’è chi gioca alle caramelle, chi legge, fa altro. Interrogatevi, osservatevi quante volte guardate il telefono in una giornata. Però poi noi rientriamo qua dentro e mettiamo una quantità di energia infinita soltanto per produrre la carta».

«Qui c’è l’energia di un vulcano di conoscenze e di capacità, però anziché usare l’energia di questo vulcano per scaldare 15 condomini ci mettiamo una caffettiera sopra, ci facciamo un caffè. Io vorrei che l’energia che c’è qua dentro venisse incanalata in un altro modo. E allora io penso che dobbiamo pensare che un giornale, che Repubblica è un articolo, un’homepage, una app, un qualche cosa che troviamo sui social, un segno grafico, un tono di voce, un prodotto stampato, è tutto insieme».

Un solo giornalismo, tanti sistemi distributivi

«E allora io vi dico oggi: non ha più alcun senso avere Repubblica di carta, le redazioni di carta e Repubblica.it. Noi siamo il giornalismo di Repubblica. E ci qualificheremo per credibilità, autorevolezza, per quello che siamo capaci di fare, ma non per i sistemi distributivi: i sistemi distributivi sono un punto secondario».

«Noi, idealmente da oggi – nelle prossime settimane la metteremo a punto, questa cosa – faremo un prodotto unico. Dal punto di vista del giornalismo, poi le declinazioni saranno diverse: cucineremo delle cose per la carta e cucineremo delle cose per il sito, uscendo da quelle declinazioni, da quelle polarizzazioni bianco-nero per cui si dice “la carta era morta, era finita”, tutto digitale, come i libri erano morti e esisteva solo l’ebook. Poi si prendono sbandate al contrario, tipo “no, è morto il digitale, è tornata la carta”. Oppure, come nell’ultimo anno: ah, no, l’ebook è morto è il ritorno del libro tradizionale e delle piccole librerie di quartiere. Non è vera né l’una né l’altra cosa, o sono vere entrambe».

«A me un editore americano ha fatto l’esempio del forno. Quando è arrivato il forno a microonde, tutti dicevano: basta, il forno tradizionale non serve più. Si usa il forno a microonde per far tutto. Poi uno capisce che il pollo arrosto nel microonde non lo può fare e la pizza la può scongelare. Il forno a microonde è l’ideale per scaldare i biberon o scongelare le cose, ma le lasagne, il pollo arrosto e la pizza vengono meglio nel forno tradizionale».

Esempi concreti

«Ma soprattutto mi sta a cuore una cosa: portare la capacità di analisi delle cose, l’intelligenza che c’è qui, anche sul digitale. Questo non vuol dire che non ci sia. Però non può succedere che Juncker parla e attacca Renzi, noi riusciamo a raccogliere una risposta di Renzi alle 3 del pomeriggio e la teniamo per il giornale di carta del giorno dopo. Naturalmente, poi nelle ore che ci sono in mezzo Renzi fa un tweet, fa una battuta, la sera va in una televisione, per cui noi il giorno dopo non abbiamo più una cosa nostra originale. La risposta di Renzi la dobbiamo mettere in tempo reale quando ce l’abbiamo, sul sito, subito».

Il sito

Il sito deve diventare il luogo di dibattito. Questo è il primo sito di informazione italiano: Io vorrei che diventasse di gran lunga il primo sito di informazione. Io vorrei che diventasse IL sito di informazione e dibattito italiano. Che riesce a dettare il ritmo della giornata, l’agenda della giornata. Il giornale del giorno dopo non dev’essere la risposta di Renzi a Juncker. Dev’essere un pezzo in cui si racconta perché c’è lo scontro, su cosa, come. il resto lo facciamo sul sito. Il dibattito si fa lì. Le cose che sappiamo devono andare lì».

Le redazioni locali

«Tutte le antenne che abbiamo sul territorio: io l’ho detto, abbiamo già fatto una cosa che è stata collegare alla riunione del mattino tutte le redazioni, tutte le edizioni e quindi tutte le città, Ma noi abbiamo una forza sul territorio che non ha nessuno. Nessuno ha 15 persone a Bari, a Palermo, a Napoli. Bisogna riattivare i sensori sul territorio, i canali di di dialogo e di coordinamento. Per raccogliere tutto quello che arriva .Per ascoltarlo. Per raccontarlo in modo poi unitario. Tutto lo sforzo del lavoro che facciamo non può essere per il giorno dopo ma deve essere per il tempo reale. La nostra analisi deve essere per il giorno dopo».

Nuova organizzazione del lavoro

«Ho pensato una nuova organizzazione del lavoro che oggi vi dico, in queste due settimane discuteremo, ci saranno sicuramente dei problemi tecnici, di orari, di turni, di tecnologie. Io so che problemi ci sono, non faccio del semplicismo, ma se partiamo dai problemi tecnici tra due anni saremo ancora qui che discutiamo dei problemi tecnici. Io voglio partire dalle opportunità e dalle necessità e da un disegno. E poi con attenzione e buona volontà, spirito di collaborazione, ci sediamo con tutti e cerchiamo di risolverli. Però non partiamo dai problemi. Partiamo da quello che si deve fare».

«Un’organizzazione in cui quello che noi sappiamo, quello che noi conosciamo e siamo in grado di raccontare entri immediatamente nel flusso. Questa entrata nel flusso cosa significa? Significa che io penso che si debba iniziare… noi sappiamo che il nostro è un sito che fa 24 ore su 24, 7 giorni su 7, ma solo un pezzo di noi, una parte di noi fa questa cosa. Gli altri no, gli altri continuano a fare il tradizionale, continuano a pensare che la battaglia della sera sia la battaglia fondamentale. Oggi invece, io non penso che sia la battaglia della sera, la battaglia fondamentale, ma è la battaglia del mattino».

«Noi abbiamo infinitamente più lettori tra le 7.30 e le 9 del mattino di quanti ne abbiamo il giorno dopo in edicola. Quindi, io penso che di tutte le redazioni ci debba essere una presenza alle 7 del mattino. Immaginate una cosa: alle 7 del mattino vuol dire essere un uomo, una donna libera alle 3 del pomeriggio».

La battaglia del mattino

«È una cosa fondamentale. Avete visto, molti di voi avranno letto il piano di Luciano Fontana al Corriere della Sera [pubblicato in anteprima da Datamediahub, vedi link, ndr]: anche lì è chiarissimo che cosa si dice. Che quella è la sfida: la partita del digitale è la partita del mattino. La stesa cosa si sta facendo a La Stampa. La stessa cosa si sta facendo ovunque, in tutte le redazioni del pianeta».

«Allora, io non vorrei avere la palma di quelli che invece sono rimasti gli ultimi custodi della tradizione del rito delle 11 e prima delle 11 il mondo deve stare fermo perché alle 11 dobbiamo discutere di quello che abbiamo fatto il giorno prima. No. Cambiamo: io penso che ci debba essere un vicedirettore alle 7 del mattino, un caporedattore centrale e una presenza delle redazioni alle 7 del mattino. Che ci debba essere una prima riunione alle 8 ogni mattina, una riunione veloce in cui si imposta il lavoro. In cui se sono successi i fatti di Colonia nella notte, alle 8 del mattino si decide che la persona, che ci sia un giornalista che va a Colonia, o se si decide che ci sono dei dati cinesi, o che Monte dei Paschi è affondata e vediamo che le borse riaprono male, che va a Siena».

Ma «non che si inizia a chiamare le persone alle 13 per mandarle da qualche parte, spesso su dei fusi per cui le cose non funzionano. Ma che alle 8 del mattino si decide. E ci si prende la responsabilità di decidere. E quella persona poi, il vicedirettore di turno, è la persona che poi aprirà la riunione delle 11 e a quel punto si può fare serenamente alle 11 la carta, o comunque l’integrazione.

Io non voglio più aprire la riunione con la messa cantata: non è nemmeno il mio mestiere e non ne sono capace. La riunione delle 11 viene aperta da una persona che ci racconta che cosa stiamo facendo. Qual è il flusso delle notizie, come siamo disposti sul campo, che cosa è in questo momento quello che sta accadendo nel paese o nel mondo e il racconto del paese e del mondo. E allora lì, nella riunione, la discussione non dovrà più essere l’elenco… oggi escono i dati dell’Istat, perché i dati dell’Istat se ne saranno occupati alle 8 del mattino di come coprirli, e di come andare a raccontare i dati dell’Istat l’avremo fatto in quel momento».

«E allora la riunione sarà che i capi dei settori racconteranno, dovranno fare uno sforzo subito per dire: ok, abbiamo i dati dell’Istat. Che cosa raccontiamo domani sul giornale, intanto che cosa facciamo sul sito durante la giornata, ma che cosa poi raccontiamo ai lettori domani? Raccontiamo intanto che cosa significano questi dati, che cosa ci illuminano, come possiamo andare avanti? Facciamo un’intervista che sia legata a quello, diamo l’interpretazione. Allora sperimenteremo, vedremo se funziona».

«La riunione che a me affascina di più… ne ho viste tante in giro, ho un taccuino di riunioni che sono andato a vedere in giro negli altri paesi, ognuno colleziona manie, la mia mania sono le riunioni dei giornali, ne ho viste tante e ho visto che il guardare indietro, il discutere cosa abbiamo fatto noi, cos’hanno fatto gli altri è un po’ una cosa molto italiana.Io preferisco che la riunione e la giornata partano guardando avanti, preoccupandoci di che cosa faremo oggi, di che cosa stiamo facendo, cosa faremo e cosa faremo domani mattina».

«E poi penso che ci sia un momento più utile di riflessione alla fine della riunione, che interpreti cosa abbiamo fatto, dove abbiamo sbagliato. Che cosa pensavamo, le occasioni mancate, come avremmo potuto fare meglio, che sia più un discorso da fare alla fine. E anche raccontare le cose che abbiamo fatto bene sul digitale il giorno prima, le cose che pensavamo che sarebbero andate bene per scoprire poi che invece non hanno funzionato, per confrontarci con la realtà».

«Il digitale ha questa freschezza, che ti fa confrontare con la realtà dei lettori e non sempre la realtà dei lettori è che se gli dai il cane a tre teste per forza vince il cane a tre teste. Certamente il cane a tre teste farà molti click, però scopriremo anche che se siamo capaci di dargli cose intelligenti, cose ben raccontate, che quelle cose camminano, che quelle cose funzionano: questa è la sfida. E poi comunque gli daremo anche cose in cui noi crediamo che non per forza devono fare milioni di click. Non dipendiamo solo da quello».

Identità e sperimentazione

«Abbiamo una nostra identità e dobbiamo tenere alta questa identità. Quando dicevo si sperimenta, bisogna avere un coraggio, però, oggi: quello di sperimentare, quello di provare e anche quello di chiudere. Se una cosa non funziona, bisogna lasciarla, bisogna cambiare, bisogna avere il coraggio di dire: non funziona. io penso questo: nessuno ha il record di fare 10 cose bene. Io penso che se proveremo a sperimentare, fare 10 cose e ne porteremo a casa in maniera soddisfacente sei, sette, otto, possiamo essere felici».

«Ma penso che sia naturale, umano sbagliarne due e ammettere: questa non è venuta bene, abbiamo sbagliato. Non era come la volevamo. E la capacità, anche qui, di correggersi e rimettersi in discussione».

Previsioni sbagliate

«Vanno riviste anche le energie. Tutti, in occidente, abbiamo pensato che il tablet sarebbe stato il luogo del giornalismo. Oggi sappiamo che non è così. Il tablet, poi, in Italia viene usato in un modo antico, viene usato come “sfogliature”, che se volete potrebbe essere, per chi pensa al tipo di esperienze che puoi avere sul tablet, un’aberrazione. Però si usa così e quella cosa funziona e ci sono alcune decine di migliaia di persone che ci danno dei soldi per leggerlo così, il giornale. Perché cambiano i costumi».

«C’è un’analisi su chi legge i giornali sui tablet, quando sono arrivati i tablet uno pensava che fosse roba per trentenni, per quarantenni. Invece i giornali sui tablet li leggono spesso i settantenni, gli ottantenni. Per due motivi: perché si svegliano presto la mattina e magari alle 6, l’edicola non è ancora aperta, o magari piove, non hanno nessuna voglia di alzarsi, di uscire, e per cui cos’è successo? Che il tablet gli porta il giornale a letto. E lo possono ingrandire. Allora questa è l’interpretazione».

«Ma noi pensavamo che fosse da interpretare in modo diverso. E allora sono stati costruiti prodotti per i tablet, ma vedete, Murdoch aveva fatto un grandioso giornale apposta per i tablet. E dopo un anno l’ha chiuso perché non funzionava. Noi abbiamo R Sera che è un bellissimo prodotto. il problema è che è un prodotto che non funziona».

«E allora chiedere a dei colleghi di concentrare le loro energie per un prodotto che poi fa pochi contatti, secondo me è uno spreco delle loro intelligenze, delle loro energie. E allora io parlerò anche con loro e troveremo un modo per far lavorare loro su altre cose. Per redistribuire».

Mobile e social first

«Qual è il posto dove oggi si guarda l’informazione di più? È il mobile. Sono i telefoni. I telefoni però hanno un’impaginazione diversa di quella del sito. Allora io penso che dovremmo concentrare le energie ad avere un desk mobile, che si preoccupi di quella funzione. Dovremo aumentare le persone che si occupano dei social».

«Lo stiamo facendo benissimo, questo è il giornale che ha la migliore presenza su Facebook in Italia e una delle migliori in circolazione in Europa, ma bisogna farlo, bisogna farlo bene. E io penso che bisogna mettere anche contenuti alti su Facebook».

Google e Facebook

«C’è una grande freddezza, un fastidio, si dice che Google e Facebook sono un pericolo. C’è un detto americano che dice che se uno fa il cacciatore di anatre deve andare dove sono le anatre. Le anatre di solito sono negli stagni o negli acquitrini. Se uno fa il cacciatore di anatre non può dire che gli fanno schifo gli stagni e gli acquitrini e che vorrebbe stare comodo al caldo a casa sua».

«Lo stesso vale, se uno vuole avere i lettori, deve andare dove sono i lettori oggi. E se i lettori sono nello stagno, deve andare nello stagno a prenderli. I lettori sono su Facebook, sono su Google, sono su Twitter, i lettori sono lì e noi dobbiamo andare lì» [purché ci si ricordi che Google e Facebook e compagnia cantante non sono i badanti dell’editoria e non sono nemmeno enti di beneficenza, ndr].

«Abbiamo avuto una grande diffidenza, giustamente, per lungo tempo, perché uno che cosa faceva. Se metteva un proprio articolo su Facebook, su Google, sugli aggregatori, sostanzialmente non aveva il traffico e non aveva la pubblicità».

«Oggi invece esistono dei modi – gli Instant Articles o gli AMP, gli articoli come verranno condivisi su Google – e lì però tu sei presente con la tua testata. Il tuo pezzo ha tutti gli elementi che sono il tuo giornalismo: la testata, la firma, il tuo articolo, la foto o la fotogallery, i contenuti intorno, gli altri articoli che tu segnali. La tua esperienza, lì dentro, è protetta».

Giornali e ristoranti

«Se voi fate una similitudine tra un giornale tradizionale che abbia storia e un ristorante antico tradizionale, ci sono molte similitudini. Abbiamo l’archivio, che è la cantina di un ristorante. Abbiamo lo chef in cucina, abbiamo quelli che cucinano le cose, abbiamo quelli che si occupano di portarle in sala… abbiamo un menù tradizionale. Se volete, un giornale è fatto con le sezioni come un menù è fatto con le sezioni».

«Il problema qual è? Andate in un ristorante oggi: quante persone, oggi, in un ristorante prendono antipasto, primo, secondo, contorno, frutta, formaggio, una bottiglia di vino intera? Nessuno. La gente va, prende un antipasto e un piatto, soprattutto se è giovane prende una cosa e un bicchiere di vino. Molti ristoranti si sono dati da fare, si sono trasformati. E molti ristoranti che hanno un nome, quelli poi degli chef, i brand forti, che cosa hanno fatto? Hanno cominciato ad andare dov’è la gente».

«Anziché stare lì e dire: “ah, c’ho metà dei tavoli pieni, la gente non fa più il pasto completo, sono dei cretini, non capiscono niente, sono degli ignoranti”, cosa hanno pensato? Se la gente sta fuori devi andare dove sono i clienti. Hanno aperto corner nei grandi magazzini, negli aeroporti, nelle stazioni, dove propongono una cosa. Uno chef milanese aveva aperto un corner a Expo e faceva una sola cosa: i risotti. E tu potevi avere il suo risotto e un bicchiere di vino».

«C’era sempre la coda, perché le persone provavano l’esperienza: “non andrei mai nel suo ristorante stellato, ma qui per 12 euro mi mangio il suo risotto e prendo un bicchiere di vino”. Allora, io penso che gli Instant articles siano esattamente la stessa cosa. Cioè, quanti giovani, quante persone della società oggi vengono sulla nostra homepage? Sempre di meno. Ne abbiamo ancora tanti, ma sono dei lettori più tradizionali. Prendono il pezzo singolo, ma vogliono la carta, vogliono il menù, vogliono la costruzione. Apprezzano il fatto che la testata scelga per loro e gli dica che cosa andare a leggere, gli dà la gerarchia delle notizie».

«Ma a molti altri, oggi, la gerarchia non la dà il giornale. La gerarchia gliela danno gli amici, che gli segnalano che quella tal cosa è importante».

«E allora noi dobbiamo essere capaci di fare i contenuti e di metterli in circolazione molto di più, così gli amici li possono segnalare agli amici. E se lì dentro i click, poi, vengono a noi e la pubblicità viene a noi e il nostro giornalismo viene più letto, allora va bene».

«Quando il New York Times decise di fare gli Instant Articles di Facebook (il NYT ha 50 milioni di persone leggono il sito: potrebbe dire siamo così grandiosi che non dobbiamo preoccuparci del resto del mondo), ha detto: “Ci sono 750 milioni di persone che leggono su Facebook in inglese. Forse allora potremmo pensare che ci facciamo leggere anche dagli altri 700 milioni che non ci leggono, non solo dai nostri 50 milioni”. Io penso che questa sia la partita, facendo attenzione, naturalmente». [Jeff Jarvis sarebbe felice di leggere tutto questo. Il contenuto giornalistico che si libera. Ma Repubblica, comunque, spacchetta e distribuisce e si fa distribuire, negli intenti di Calabresi, pur mantenendo ben chiaro e delimitato il proprio campo di gioco, ndr]

Bilancio e libertà

«E poi c’è un dato importante. Quando io vi dicevo dei fatturati pubblicitari, che vanno tenuti presenti perché se un giornale vuole essere libero, sano, credibile, deve avere i bilanci a posto. Altrimenti non è un giornale libero, non è libero dalle pressioni della pubblicità, alla fine comandano le amministrazioni. È bene avere delle amministrazioni sane e efficienti, ma è bene che i giornalisti siano liberi di fare i giornali come credono e come pensano, magari di sbagliare ma perché sono convinti di quella cosa».

Interlocutore forte di interlocutori forti

«Allora, se voi guardate i bilanci pubblicitari, il digitale solo in Italia vale 2 miliardi. Il 66% di questi soldi vanno su Facebook e su Google. E il restante terzo se lo dividono un sacco di siti e l’informazione tradizionale. Lì però c’è uno spazio di crescita grande che, però, non sarà per tutti. Sarà per chi avrà le dimensioni da poter essere un interlocutore forte di Facebook e di Google. E questa, secondo me, potrà essere l’ambizione di Repubblica: diventare l’interlocutore forte in Italia di Facebook e di Google. Questo ci può garantire futuro».

«Intorno, poi, penso all’informazione, a questo flusso continuo, questa possibilità di approfondimento continuo che si farà sul sito, ha bisogno di allargarsi editorialmente. In questa sala stasera riparte Webnotte. È l’esempio, come anche le serie che abbiamo fatto, di prodotti che mettono la cultura e l’intelligenza di Repubblica che sperimentano forme e linguaggi nuovi. Bisogna portare più cultura, più spettacoli, più intelligenza nostra nel digitale».

«Ci vuole pazienza. Per unire quei puntini ci vuole pazienza e fatica. Però guardate: quest’illusione che c’è stata nel mondo negli ultimi anni che si potesse vivere senza fatica, secondo me è il grande abbaglio dei tempi. Ci vuole pazienza, Capacità di tempi lunghi, di progetti lunghi e bisogna fare fatica. La fatica ci salverà. La fatica giusta, non quella inutile di cambiare continuamente le cose. La fatica di fare le cose per bene. Quella dobbiamo mettere».

«Penso a un giornale meno verticistico, meno dipendente dal direttore. Quando abbiamo fatto il passaggio di consegne, Ezio Mauro diceva, scherzando: «Passiamo dalla monarchia alla democrazia». Ho levato il nome della testata. Penso a maggiori deleghe ai vicedirettori e anche a maggiori responsabilità dei settori».

Calabresi cita qui un aneddoto: Mario Orfeo che con l’interfono ti diceva cosa dovevi mettere anche nella terza delle brevi.

«Io non credo a questo modello, con tutto il rispetto per Mario».

Deleghe e proposte

«Io penso che sia necessario che ci siano deleghe e che i settori abbiano la responsabilità di decidere, e ognuno risponderà delle scelte che ha fatto, in un dialogo serio, serrato sulle cose del giornalismo. E anche che si debba andare avanti, intraprendere questa strada di collaborazione sempre più forte in andata e ritorno con le redazioni locali. Le cose devono salire dal territorio. Le cose che vanno sui giornali non possono essere nella testa del direttore. Il direttore può essere un coordinatore, avere delle buone idee, fare delle scelte. Però le cose devono salire dalla responsabilizzazione di ognuno dei giornalisti di questo giornale».

«C’è il dovere delle proposte: non si può essere spettatori di questo mestiere. Questo mestiere è bello perché si fanno delle proposte. Avete fatto i giornalisti, io penso sempre che se uno voleva guadagnare faceva il notaio. Oppure bisogna avere la responsabilità di cercare, di chiedersi ogni mattina: quel pezzo che seguo io che cosa può dare oggi, che cosa posso portare io al giornale? Ma questa è la cosa bellissima di questo mestiere».

No cordate, no fronde, no sciatteria

«Ultima cosa: c’è una roba che non tollero. Non tollero le cordate. Per me gli amici non esistono, dentro il giornale. Non ci sono gli amici, i nemici, quelli che mi stanno simpatici. Non me ne frega niente. Questo qua è un prodotto collettivo, Per me non esistono cordate, favoritismi, vale il lavoro. Vale l’impegno delle persone. Non tollero le cordate, non tollero le fronde, la gente che rema da un’altra parte o che fa le fronde silenziose.

Su quelle farò il direttore come lo faceva Ezio Mauro. Con il piglio, la presa, la severità che aveva lui. E non tollero anche la sciatteria, le cose fatte male. Ci sono troppi refusi, nei giornali, troppi errori. I pezzi bisogna rileggerli, bisogna rileggere i titoli, bisogna farci attenzione. Voi mi direte: «Eh ma se devi fare il giornale in 3 ore, se le cose cambiano continuamente». Io penso che noi cambieremo: se uno fa delle scelte a mezzogiorno, se gli ingredienti non cambiano, le scelte allora non si devono cambiare. Io penso che la parte cartacea del giornale si debba fare con maggiore severità. Però maggiore severità vuol dire che bisogna ridurre gli errori, le sciatterie, la sporcizia, rileggersi il pezzo due volte, evitare gli eccessi di semplificazione».

«Spero anche che ci divertiremo. Un po’ di divertimento, se tornasse in questo mestiere, non sarebbe male. In bocca al lupo a tutti e che la forza sia con noi».