Il nuovo manifesto del profitto

Il 19 agosto 2019, mentre tutta la stampa mainstream italiana era invasa da retroscenismi politici, titoli cangianti, da una cronaca asfissiante, un liveblogging infinito di tutto quel che stava succedendo, una notizia un po’ originale trovava il modo di farsi strada qua e là, addirittura conquistando, almeno per un paio d’ore, il diritto, la dignità di stare in cima alle homepage di qualche giornale in italiano. Per poi sparire, trovare spazio in qualche commento – a volte chiuso da paywall – ma senza grossa risonanza.

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Il che, fra poco scopriremo perché, è davvero un peccato.

La notizia, più o meno, si può riassumere così: Il Business Roundtable ha ridefinito il concetto di “scopo” delle società private, spostando l’obiettivo dal profitto alla promozione di “un’economia al servizio di tutti gli americani”. Il Business Roundtable è (traduciamo dall’about us del sito ufficiale) «un’associazione di amministratori delegati delle principali società americane».

Quando leggiamo principali società americane, significa che del Business Roundtable fanno parte gli amministratori delegati di Johnson & Johnson, JP Morgan, The Coca-Cola Company, PepsiCo, Dell Technologies Inc., Amazon, Walmart (cito a caso, puoi verificare personalmente i membri dell’associazione).

Un buon approfondimento sul tema lo ha offerto il bel podcast gratuito del New York Times, The Daily, in una puntata dal titolo “What American C.E.O.s Are Worried About”. Il giornalista Andrew Ross Sorkin spiega:

«Per tutto il tempo che ho dedicato a occuparmi di finanza, qualsiasi amministratore delegato in America diceva di avere un dovere fiduciario nei confronti degli investitori. Tutto era fatto in nome del profitto».

Con questa nuova dichiarazione, le grandi aziende americane che fanno parte del Business Roundtable spostano il loro dovere dagli azionisti a tutte le alte parti interessate all’azione delle aziende stesse. Il che significa, per esempio: dipendenti, famiglie dei dipendenti, comunità di riferimento (dal locale al nazionale), clienti, fornitori. In inglese ci sono due termini specifici per indicare i primi, gli investitori, e questo nutrito gruppo di entità: i primi sono gli shareholders, tutti gli altri sono gli stakeholders. Lo spostamento di interesse dai primi ai secondi, in realtà, non è una novità.

È in qualche modo connaturato con un certo senso di dovere – dovuto a ragioni culturale e religiose – dell’imprenditore americano di cui abbiamo parlato quando abbiamo affrontato il tema del fundraising. È anche una visione che era piuttosto tipica di un certo capitalismo in un certo momento storico: Ross Sorkin cita un esempio che probabilmente molti studenti di economia – e non solo – hanno ben presente. Il fordismo. Nel 1914, Ford aveva rivoluzionato le linee produttive e per mantenere i propri dipendenti aveva raddoppiato il compenso che ricevevano (e che avrebbero potuto ottenere in qualsiasi altra società impegnata nella produzione di automobili), passandolo da 2,5$ a 5$ al giorno.

Ford non l’aveva fatto solamente per far del bene agli altri, intendiamoci. La sua operazione era volta a mantenere in vita la propria azienda e a far crescere i profitti economici, incidendo sulla propria società, sulla propria comunità di riferimento. Non un’operazione di beneficenza, per capirci. Ma comunque una visione in qualche modo “etica” del capitalismo: tu mi dai il tuo duro lavoro, io ti do un po’ di stabilità e di sicurezza economica.  Si chiama managerialismo, in ambito accademico. Ed è una visione del mondo capitalistico che sposta l’interesse – almeno un po’ – dal singolo alle organizzazioni.

Ad un certo punto, però, questa visione – che comunque era ampiamente sbilanciata nei confronti dei grandi imprenditori e delle grandi aziende – viene letteralmente spazzata via e lascia spazio a qualcosa di radicalmente opposto. Siamo negli anni ’70. Si impongono le idee di Milton Friedman, il mercato diventa una specie di divinità che regolamenta tutto, il profitto e l’interesse degli investitori (gli shareholders) diventano l’unica preoccupazione delle aziende. Soldi, ad ogni costo. E il resto? Il resto verrà da sé, ovviamente. “The Social Responsibility of Business Is to Increase Its Profits” è un articolo che Milton Friedman scrive addirittura sulle pagine del NYT (guarda che bella, già che ci siamo, la loro macchina del tempo, anche se la lettura è un po’ più agevole in formato testo). Quell’ideologia si impone. Il profitto, prima di tutto.

Di fatto, questa nuova dichiarazione del Business Roundtable, è una specie di ritorno al passato (che pure guarda al futuro). Anche in questo caso, come nel caso di Ford, non stiamo parlando di beneficenza ma di un cambiamento avviato che ha in sé sicuramente degli elementi positivi ma che potrebbe anche ridursi alla semplice dichiarazione di intenti per far bella figura. In ogni caso, si tratta di una dichiarazione epocale, che riflette – prima della politica stessa! – i cambiamenti sociali in atto e che vede nell’interesse sociale da parte delle aziende un modo per farle sopravvivere, prosperare e, ovviamente, essere profittevoli.

Va bene. Cosa c’entra una lezione d’economia su Wolf?

C’entra eccome. Perché qui si apre un intero mondo per chi comunica e per chi informa, e per tutti noi. Leggiamo i valori che propongono queste aziende:

  • Offrire valore ai nostri clienti. Promuoveremo la tradizione delle aziende americane all’avanguardia nel soddisfare o superare le aspettative dei clienti.
  • Investire sui nostri dipendenti. Ciò significa, per cominciare, compensarli equamente e fornire loro importanti benefici. Ma significa anche dare loro supporto attraverso la formazione e l’educazione che aiutano a sviluppare nuove competenze in un mondo in rapido cambiamento. Promuoviamo la diversità e l’inclusione, la dignità e il rispetto.
  • Supportare le comunità in cui lavoriamo. Rispettiamo le persone che appartengono alle nostre comunità, proteggiamo l’ambiente adottando pratiche sostenibili in tutte le nostre attività.
  • Generare valore a lungo termine per gli azionisti, che forniscono il capitale che consente alle aziende di investire, crescere e innovare. Ci impegniamo per la trasparenza e l’impegno efficace con gli azionisti

Se pensiamo positivamente che tutto questo non resterà un pezzo di carta (o una serie di seducenti firme su una pagina web), questi valori e questa svolta andranno prima di tutto applicati, ma poi anche comunicati.

I giornalisti potrebbero interessarsi a esempi virtuosi di queste teorie, dando loro ampio spazio anziché soffermarsi sul qui e ora e sulle Cose Che Cambiano Tutto da un giorno all’altro (vedi La fine dell’età dell’isteria). Chi si occupa di comunicazione potrebbe a sua volta interessarsi a queste pratiche, evidenziandole quando possibile, comunicandole in maniera corretta. Costruire un ecosistema di contenuti in cui si mostra che c’è chi lavora in tal senso potrebbe diventare una buona pratica sotto molti punti di vista.

Le due anime potrebbero davvero incidere sul medio-lungo periodo. Perché è evidente: se un’azienda che comunica di aver messo in pratica un determinato approccio (facendolo sul serio!) ha successo, altre verranno. E altre ancora. Il green marketing, per esempio, portato avanti in maniera coerente da chi lavora davvero sul prodotto in senso ecologico, può avere sicuramente un impatto positivo sulla società tutta (almeno finché non diventa, come tutto, un cliché. O, peggio ancora, un’operazione di lavaggio mediatico, di greenwashing).

«forse le BCorp hanno un futuro: al pianeta non serve un impegno sincero, serve un impegno concreto»,

scriveva Mafe de Baggis in B The Change, quando iniziavamo a occuparci, nel quaderno del social business, di quelle

«aziende profit che scelgono di certificare il loro impegno in contesti slegati dal business: la felicità dei dipendenti, l’impatto ambientale, la trasparenza, l’impegno per i problemi sociali del territorio».

Adesso che il Business Roundtable si avvicina a queste posizioni, se traduciamo quei quattro valori dei CEO americani in valori per la comunità di operatori, di addetti ai lavori che si riunisce intorno ai contenuti di Wolf e scopriremo che è quel che andiamo costruendo insieme fin dall’inizio di questa esperienza, con ogni quaderno, con ogni contenuto, con ogni conversazione che produciamo.

Si tratta di idee forti, che meriterebbero una diffusione e un’attenzione più capillare. Perché, come al solito, significa concentrarsi su ciò che funziona e diffonderlo.

(AP)