Il design thinking ma senza nominarlo

Tutti parlano di intelligenza artificiale. Ma chi ha le competenze per parlarne davvero? E per mettere in atto quello che si potrebbe fare, in ogni azienda?

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È il tema che è stato sollevato qualche tempo fa quando è uscita una ricerca che ha analizzato in quante aziende nuove, in quante startup, si utilizzi, nella presentazione, la terminologia “intelligenza artificiale”.

«Secondo lo studio, realizzato con la sponsorizzazione di Barclays, nel 40% delle 2.830 startup dell’AI in Europa non c’è alcuna prova che l’intelligenza artificiale sia una parte rilevante nei prodotti offerti. Le conclusioni di Mmc Ventures sembrano suggerire che l’AI si presti in molti casi a fornire un’etichetta con cui le imprese innovative attraggono più facilmente attenzione e investimenti: le startup dell’AI ricevono fra il 15% e il 50% più finanziamenti delle startup non collegate al settore dell’intelligenza artificiale e del machine learning».

È evidente che si tratti (anche) di una buzzword.

Una delle cose che ho imparato molto presto avendo a che fare, per esempio, con la SEO e con la diffidenza che genera – ancora oggi c’è bisogno di eventi come quello organizzato da Enrico Altavilla, Serious Monkey, che ti ricordino che la SEO non è solo keyword e link, link e keyword – e che dalle buzzword devi scappare velocemente. Anche quando i concetti che sottendono sono perfetti, anche quando è proprio quel che stai facendo.

Ti confesso, per esempio, che con i miei clienti lavoro con metodi di design thinking, ma non li chiamo così.

Forse ti farà ridere, ma ho scoperto che se non dai per forza un nome alle cose che fai – a volte si può! A volte basta inventare dei nomi dedicati – eviti lo spiacevole effetto di sembrare una delle tante persone che si è letta l’ultimo manuale, ha cavalcato l’ultima tendenza, ha scoperto le parole chiave del momento. Eviti che poi escano articoli come questo che demoliscono il design thinking – e attenzione: lo demoliscono come andrebbero demolite tutte le cose se diventano una credenza religiosa anziché un metodo serio, circostanziato, dinamico e oggetto a revisioni costanti e progressive.

In buona sostanza, se usi i metodi senza etichettarli eviti che i tuoi interlocutori si appassionino al nome e non alla sostanza.

Ti avverto: si fa un sacco di fatica in più. Ma è una fatica che, a medio e lungo termine ripaga.

Il motivo per cui puoi permetterti un gioco del genere, anzi, il motivo per cui dovresti farlo è – proprio come quando ti suggerivo di aggiungere delle frizioni ai tuoi automatismi – che le metodologie si introiettano e diventano subito mantra o routine e troppo spesso smettono di farti riflettere.

Il design thinking, invece, è un percorso che si fa inducendo le aziende a crescere, mutare, innovare insieme al loro pubblico reale o potenziale, senza fissarsi per forza su quello che si è sempre fatto ma, al tempo stesso, senza buttare tutto.

È un percorso che ti richiede, prima di ogni altra cosa, di rivoluzionare il tuo approccio, se non ci avevi mai pensato: al centro dell’approccio ci va il cliente. Ci va il consumatore. Ci va chi usa il tuo prodotto, chi usufruisce del tuo servizio. Questo è quel che i critici del design thinking dicono essere un’ovvietà. Ma siamo davvero sicuri che sia ovvio?

Qualche tempo fa ho aperto, insieme a mia moglie, il libretto in Posta al nostro secondogenito, come avevamo fatto con la prima.Sapevamo che il processo è macchinoso e abbiamo dovuto approfittare di un momento per essere presenti entrambi: è uno dei tanti retaggi burocratici che sono rimasti ben radicati nella nostra cultura e che non hanno senso. Quel che non sapevamo è che, cinque anni dopo, la procedura si era interamente digitalizzata.

Devo dire che ho accolto la notizia con un sospiro di sollievo. Il sospiro dell’addetta delle Poste, invece, era di disperazione.

Col panico negli occhi quando le abbiamo detto cosa volessimo fare, ha dato il via alla procedura e ben presto si è rassegnata alla curiosità di mia moglie e mia e ci ha mostrato passo dopo passo quello che doveva fare. Abbiamo, insomma, visto l’interfaccia del gestionale.

Ebbene, posso assicurarti che quel gestionale non è stato progettato da qualcuno che avesse parlato prima con le persone che poi avrebbero dovuto usarlo.

Definirlo macchinoso è fargli un complimento. Kafkiano è il termine più vicino che ho trovato per definirlo.

Esempi? È addirittura difficile descriverne il funzionamento!

Per esempio, se scrivi una via con il solo cognome della persona, il sistema a volte te l’accetta. A volte, quando verifichi i dati, ti suggerisce di metterci anche il nome. Dopo, però. E tu devi rientrare e modificare.

Quando scegli il tipo di libretto, ti propone opzioni che non sono compatibili con l’età dell’intestatario, anche se hai già inserito i dati (e ovviamente te lo dice dopo).

Dopo aver inserito tutti i dati dei due genitori (incluso, essendo noi partite IVA, il codice ATECO che l’addetta ha dovuto cercarsi dallo smartphone su Google!) e dopo la verifica delle firme, entrambi i dati dovevano essere validati ricontrollandoli passo dopo passo e insieme a quelli del minore intestatario del libretto. I dati di quest’ultimo andavano verificati sia per l’associazione al profilo della madre sia per l’associazione al profilo del padre.

Ma la cosa che mi ha fatto allibire era che il messaggio “TUTTO OK” era fatto più o meno così:

Vi sono errori nella compilazione dei dati. FACCINA SORRIDENTE VERDE.

L’addetta mi ha spiegato che la faccina sorridente verde voleva dire che, no, non erano presenti errori nella compilazione dei dati.

La procedura interamente digitale prevedeva anche la scansione di tutti i documenti (attraverso uno scanner-stampante Olivetti, «l’unica cosa che funziona davvero bene», ha detto l’addetta prima che il software di acquisizione si piantasse), la validazione delle firme digitali (ne ho comunque dovute apporre 12, come la mia consorte), la stampa delle 23 pagine del contratto su fogli solo fronte e altre amenità che ci hanno fatti odiare da tutta la coda delle poste e che hanno fatto guadagnare all’addetta la pausa d’obbligo che le ha comunicato il terminale.

Ci abbiamo messo un’ora. A memoria, circa 15 minuti in più della volta precedente, in cui era tutto di carta.

«Però, almeno, adesso non dovrete più rifare tutta questa procedura: siete inseriti». Certo. Ma noi non contiamo di fare altri figli.

La disavventura occorsa alla nostra addetta del cuore, che evidentemente era abituata alla cosa, e a noi, come al solito, mi ha insegnato tanto se penso agli approcci che consiglio ai miei clienti e che consiglio anche a te.

Lo so che ti porta via del tempo, ma per il bene di quel che fai, quando inizi qualcosa, quando innovi, quando vuoi progettare qualcosa di diverso, fai qualche intervista al tuo pubblico, a chi ti compra già, a chi non ti conosce ancora ma potrebbe essere parte della tua clientela futura.

Butta via cinque, sei giorni per fare qualche decina di interviste. Chiedi alle persone di cosa hanno bisogno, cosa vogliono, cosa gli piace di quel che fai, cosa no, e abbi il coraggio di usare queste informazioni andando fino in fondo.

Ma soprattutto, siccome questo processo non è – e non sarà mai – una scienza esatta (a proposito: esistono le scienze esatte?), cerca di abituarti al fatto che potresti anche incappare in qualche fallimento, in qualche errore, in qualcosa che non cresce come avresti pensato.

«Chi può permettersi di perdere così tanto tempo a parlare con le persone?», potrebbe chiedersi o chiederti qualcuno.

«Chi può permettersi di non farlo?», chiedo io.

Questo metodo, che ti consiglio vivamente, ha un sacco di aspetti interessanti.

Spesso le persone che intervisti possono darti informazioni che non immaginavi.

Se hai il permesso di registrare le interviste e di usarle internamente, puoi rivederle per imparare e per far imparare a tutte le persone coinvolte nel processo.

Se le persone sono contente di questo approccio, diventeranno tuoi ambasciatori e racconteranno là fuori che c’è qualcuno che si interessa davvero a loro.

Ci sono anche modi meno impattanti dell’intervista diretta che ti offre il digitale, ovviamente (anche se personalmente dall’intervista diretta non scapperei mai). Uno di questi modi è la tanto agognata profilazione (che il correttore ortografico si ostina a cambiare in “profanazione”. Un cambiamento davvero significativo sebbene involontario. Mentre ti profilo, ti profano?), per la quale c’è in corso una vera e propria ossessione. Sì, la profilazione è una buzzword.

Qualche giorno fa, per dare una mano a un collega, mi sono imbattuto in un modo molto bello che adotta la famosa casa editrice Penguin per fare domande a chi vuole profilare senza profanare. È questa serie di domande qui.

Invece di affannarsi a scoprire quali sono i tuoi gusti per mostrarti solamente, che so, newsletter in cui si parla di romanzi rosa perché ti piacciono (pensa che palle! E se poi fra due anni ti dovessero piacere i libri di viaggio?), la Penguin – che, per carità, ovviamente usa anche il Pixel di Facebook – ti chiede queste quattro cose qui, invitandoti a fare una specie di sfida. La loro sfida è che sapranno consigliarti qualcosa che ti piacerà leggere. E intanto, chiaramente, ti profilano. Ma lo fanno chiedendo a te cosa vuoi, non facendoselo raccontare da una macchina. E probabilmente dopo un po’ ti chiederanno se ti è piaciuto quel che ti hanno proposto. Se hai cambiato idea. Se ti piace altro.

Insomma, stanno facendo design thinking. Ma non importa se lo chiamano così o meno!

AP