Fammi un contenuto virale

Il motivo che ieri ha portato il numero 28 di Wolf a uscire in forma ridotta mi ha spinto a puntare, oggi, su una delle buzzword più abusate degli ultimi anni. Viral. Virale. Viralità.

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Quante volte chi lavora nel settore della comunicazione online ha sentito parlare di “fare qualcosa di virale”? Io lavoro anche con i video. Posso certificare di aver sentito o letto la frase «produrre un video virale» almeno una decina di volte. È chiaro che messa così dimostri scarsa conoscenza del mezzo web e del concetto stesso di viralità.

Nel libro che ho consegnato un paio di settimane fa al Centro di documentazione giornalistica, in cui mi occupo di Digital Content Management, scrivo: «Di certo si possono individuare alcune caratteristiche che possono contribuire a rendere un contenuto virale: originalità, velocità di esecuzione, replicabilità, caratteristiche emotive (un contenuto divertente o commovente o che fa indignare, comunque che suscita emozioni forti), notorietà dei protagonisti del contenuto».

Il caso che per me fa scuola in maniera assoluta in termini di viralità è un fenomeno che probabilmente hai seguito anche tu nell’estate del 2014. L’Ice Bucket Challenge.

Cos’era

Un’associazione che raccoglie fondi per la lotta alla SLA in USA “intercetta” un fenomeno che esiste già sul web (per esempio: ci si filmava, sfidandosi a farsi una doccia ghiacciata, fra golfisti, oppure a dare 100$ in beneficenza). E non è mica l’unica sfida cretina che gira o girava su internet. Hai presente la sfida della cannella?). E, grazie a alcuni dei suoi associati, lo “cavalca”. Aggiungendo un piccolo dettaglio alla sfida, che diventa così: fatti la doccia ghiacciata, nomina qualcuno, sfidandolo a fare lo stesso, ma nel frattempo parla della SLA e invita a fare una donazione.

Cosa succede

In particolare Pete Frates, ex capitano della squadra di baseball del Boston College, malato di Sla, fa il video. E così la sfida si espande negli ambienti in cui era già in qualche modo presente, quelli sportivi. Grazie alla relativa notorietà locale di Frates, il video si diffonde molto e, ovviamente, gli utenti che partecipano caricano i loro filmati su Youtube e su Facebook.

I vip

Quell’estate vedo – grazie a mia moglie, devo ammetterlo – i primi video quando la cosa in Italia non era ancora esplosa del tutto (poi sarebbe arrivato anche Renzi a cavalcarla). E trovo Mickey Rourke che fa il video al Late Night con Seth Meyers. Ma forse non è stato lui il primo “vip” a partecipare. Uno dei responsabili dell’iniziativa mi dice, all’epoca – sì, li ho intervistati e mi hanno risposto in un giorno, qui c’è tutta la storia, impaginata un po’ male, incluse tutte le bufale che uscivano in merito – che il primo ad aver visto lui è stato Justin Timberlake, che ha sfidato Jimmy Fallon. Poi arriva un certo Bill Gates che sfida Mark Zuckerberg. Guarda caso a Facebook serve pompare un po’ i video. Detto-fatto: Zuckerberg fa il suo video. A quel punto la questione va completamente fuori controllo.

I risultati

Oltre 115 milioni di dollari raccolti nella sola estate del 2014.

Altri numeri (e il tasso di conversione)

Oltre 2,5 milioni di video sul solo Facebook con l’hashtag #IceBucketChallenge. Si stimano poi altri 456mila video suy Youtube per 1,3 miliardi di visualizzazioni totali sulla piattaforma di Google. Difficile calcolare il tasso di conversione: è evidente che non tutti quelli che sono stati coinvolti dalla sfida abbiano poi donato. Ma il risultato è comunque sorprendente.

La sola partecipazione di Homer Simpson aveva generato a dicembre 2014 24 milioni di visualizzazioni (divenute 25 oggi).

Lezioni da imparare

Di questa storia all’epoca hanno parlato proprio tutti. Il Guardian ha anche spiegato, intervistanto cinque esperti di marketing, PR e social media che cosa dobbiamo imparare se vogliamo provare a fare qualcosa di simile (ma non iniziamo a pensare di poter fare nulla di anche solo lontanamente paragonabile). L’analisi è fin troppo semplice (e se si prende alla lettera rischia di diventare semplicistica, per questo ci vogliono le parentesi esplicative):

  • usare il meccanismo della sfida, che solletica la “socialità” (possibilmente anche dei vip, ovviamente, ma comunque in maniera spontanea. Imporre viralità non funzionerà)
  • educare (la campagna anti SLA è anche educativa)
  • usare i video (in maniera furba. Non vuol dire che qualsiasi video diventerà virale)
  • ci vuole una “barriera all’ingresso” facilmente superabile (tutti possono farsi una doccia ghiacciata e tantissimi possono farsi un video con uno smartphone)
  • utilizzare buone cause, in modo autentico (perché anche così ci sono state tonnellate di polemiche, per dire, e se non sarai autentico non funzionerà, fallirai, sei sul web, ti scoprono)

Ma loro ci hanno riprovato?

Certo. Hanno deciso di replicarla ogni anno. Con risultati comunque importanti per la ricerca, ma ridicoli rispetto al boom del 2014. La cosa non può sorprendere: la viralità non è scalabile.