FaceApp, Moody e le memorie corte

Estate 2019. Quel che succede nell’ecosistema dei media contemporaneo ha caratteristiche del tutto peculiari, soprattutto quando si accendono e si consumano dei brevi trendtormentoni. Si traducono in ondate di interesse che spesso appaiono immotivate ma che, di solito, derivano da personaggi famosi che hanno lanciato questa o quella sfida, che hanno iniziato a utilizzare questo o quel servizio o applicazione.

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In questi giorni è toccato alla cosiddetta #FaceAppChallenge: è altamente probabile che i tuoi feed suoi tuoi profili social siano stati invasi da persone che hanno pubblicato la foto di come saranno da vecchi.

Il gioco è semplice: si scarica una app che si chiama FaceApp, si concede a questa app l’accesso alle nostre foto, si prende un selfie e bum, come per magia – ma non è magia, si chiamano reti neurali – la app ti trasforma in vecchio. Oppure in giovane, o ti mette gli occhiali o altre amenità.

challenge sono un fenomeno piuttosto noto da chi bazzica il web da tempo e possono essere i più vari. In questo caso la sfida riguarda, appunto, l’invecchiamento.

Il fenomeno è diventato virale. La metodologia di viralizzazione è molto simile a quella di qualche estate fa con la #IceBucketChallenge: per tutta una serie di ragioni l’idea di farsi un video mentre subivi una doccia ghiacciata aveva travolto un pezzo sostanzioso dell’internet, portando un sacco di soldi nelle casse dell’associazione per la lotta alla sclerosi laterale amniotrofica. Si trattava, infatti, di un’iniziativa di marketing a scopo benefico. A suo tempo, intervistai via mail Greg Cash,uno dei responsabili della comunicazione dell’associazione che aveva lanciato l’idea di utilizzare questa sfida (o doni o ti fai una doccia ghiacciata, andava più o meno così. Poi andò a finire che le persone donavano e si facevano la doccia ghiacciata al tempo stesso, e poi uploadavano il video su Youtube o su Facebook) e questo tipo di fenomeni per sensibilizzare rispetto alla donazione per la ricerca scientifica.

L’idea di utilizzare i social per diffondere il messaggio fu ampiamente pianificata. Quello che non fu affatto pianificato – perché è molto difficile, forse addirittura impossibile farlo – fu la viralizzazione, appunto, come mi spiegò Cash, che addirittura aveva perso le tracce delle modalità con cui l’IceBucketChallenge si diffuse.

Chi è stato il primo vip internazionale ad accettare la sfida? Io ho trovato il video di Mickey Rourke che l’ha fatto in tv – mentre promuoveva Sin City 2 – in tv nel Late Night With Seth Meyers.

«E’ impossibile saperlo, il primo che ho visto io è stato Justin Timberlake, che ha sfidato Jimmy Fallon. La sfida iniziale è diventata virale grazie a Pete Frates e alla sua famiglia nel Massachusetts. Pete Frates è l’ex capitano di basebal del Boston College».

A Frates era stata diagnosticata la SLA qualche anno prima. Aveva sfidato all’IceBucketChallenge alcuni sportivi: è da lì che è partita la grossa ondata di prime ricondivisioni. Che poi ha raggiunto nomi grandissimi. Fra cui lo stesso fondatore di Facebook.

Come avete contattato Zuckerberg?

«Non l’abbiamo fatto. Qualcuno lo ha sfidato, e lui ha sfidato fra gli altri Bill Gates».

Qual è stato il momento di svolta? Zuckerberg stesso? O qualcun altro?

«Anche questo impossibile dirlo. E’ diventato virale; molte persone, famose e non, hanno fatto da propulsore a questa sfida»

Eravate preparati a un successo mondiale?

«No. Siamo sorpresi come tutti di quanto si sia ingigantita la cosa a livello pubblico. E’ come se fosse una tempesta perfetta fatta da una buona causa, una sfida popolare, un’attività divertente per l’estate»

Si raccolsero oltre 115 milioni di dollari. La sfida è stata poi replicata in tutte le estati successive (è in corso anche quest’anno), ma non ha mai raggiunto la notorietà dell’epoca, esattamente come prima di quell’estate l’associazione non raccoglieva mai più di una decina di milioni di dollari in un intero anno.

Questo tipo di fenomeni ha una specifica branca del marketing che si adopera per renderli sistemici: la chiamano growth hacking. Tuttavia, anche se ci sono delle leve che possono muovere questo tipo di operazioni, non ci sono prove del fatto che si possano facilmente replicare.

Il meccanismo con cui si sta diffondendo FaceApp è molto simile a quella sfida.
Però, non ha alcuna causa nobile.

Siccome si diffonde, siccome la usano i vip, allora diventa una notizia e l’invasione dell’ecosistema mediatico si completa.

Il motivo per cui nel titolo di questo numero di Wolf parliamo di memoria corta è che in realtà FaceApp – fondata nel 2017 – aveva avuto un primo momento di crescita già ad aprile del 2018. Solo che era il periodo sbagliato: c’era appena stato lo “scandalo Cambridge Analytica” e c’era un minimo di allerta in più rispetto a questo tipo di applicazioni che di fatto utilizzano dati personali in maniera abbastanza imprevedibile.

Personalmente, visto che il lavoro di Wolf è anche quello di fare gli early adopter, l’ho provata il 13 aprile del 2018 (se confronti l’interfaccia della app con quella attuale noterai parecchi cambiamenti). Mi faceva assomigliare davvero troppo a mio nonno.

Non è magia, beninteso. Si tratta di algoritmi di intelligenza artificiale che elaborano le informazioni della foto e, utilizzando alcuni parametri preimpostati, generano questo effetto di invecchiamento. Rendono la pelle più cadente, ingrigiscono i peli, aumentano le rughe e via dicendo. Il livello di questo tipo di strumenti è sempre più elevato. Ad aprile del 2019, su Flow, pubblicavamo, ad esempio, questo blocchetto che raccontava un altro progetto simile. Il blocchetto si intitolava Questa persona non esiste e faceva così.

L’intelligenza artificiale non si maniesterà come te la immagini a causa dei film di fantascienza. Non adesso. L’intelligenza artificiale si manifesta attraverso servizi di autocompletamento del linguaggio, per esempio (in inglese, Gmail è già impressionante). O attraverso altre modalità.
Questa persona non esiste. È stata creata da un’intelligenza artificiale. Impressionante, vero? In basso a destra ti si aprirà un box che ti spiega come. Puoi anche aiutare il sistema a capire meglio le immagini. Se vuoi approfondire il tema, questo tipo di tecnologia è basato sulle reti antagoniste generative o, in inglese, «generative adversarial networks». Ne parleremo.

È la medesima tecnologia su cui si basa FaceApp.

Il fondatore di FaceApp è Yaroslav Goncharov. Ho provato a scrivergli per avere qualche informazione rispetto a questa onda anomala di attenzione che ha tutte le caratteristiche di una strategia di growth hacking: non ho ricevuto alcuna risposta. Resta il fatto che FaceApp, quest’estate, si è diffusa in particolare grazie all’uso che ne hanno fatto parecchie persone famose sui social.
Possiamo solo ipotizzare che non sia stato del tutto spontaneo, come fenomeno, ma non abbiamo altri strumenti, per il momento, per individuarne una matrice sponsorizzata. E potremmo non averne mai.

La privacy policy completa di questa applicazione è datata gennaio 2017, dunque decisamente antecedente all’introduzione in Europa del GDPR. In effetti, alcune diciture appaiono quantomeno discutibili alla luce del GDPR stesso, in particolare al punto 3, in cui si parla delle modalità con cui la app può disporre dei nostri dati e condividerli con terze parti.

Il fatto che poco più di un anno fa l’applicazione non abbia avuto particolare riscontro e che oggi, a distanza di così poco tempo, si registri questo boom dimostra se non altro quanto sia importante diffondere una cultura digitale, una media literacy che generi consapevolezza rispetto all’uso di questo tipo di strumentazioni, che appaiono meramente ludici. Questo non significa adottare atteggiamenti moralistici o prescrittivi. Bisognerebbe però almeno adoperarsi in senso culturale perché le persone che poi scelgono di usare questi servizi siano ben consapevoli di come possono essere utilizzati i loro dati.

Anche perché il giochino innocuo, oltre a servire per ingigantire le capacità di generazione dei volti da parte dell’intelligenza artificiale che gira al suo interno, già che c’è costruisce un gigantesco database che associa facce a nomi e probabilmente anche a numeri di telefono, con il dato biometrico più importante che tu abbia a disposizione: il tuo volto.

Non è mica l’ultima frontiera di questo tipo di applicazioni e non è nemmeno la più inquietante.

Ne abbiamo già parlato a settembre del 2018 in un pezzo dal titolo Lo status del sentiment: ci sono app che cercano di individuare e catalogare – per scopi non definiti – anche i tuoi stati d’animo. Qualora dovesse viralizzarsi una di quelle app, cerchiamo di non avere la memoria corta.