Cos’è successo nel frattempo. Di cosa abbiamo parlato nel gruppo di conversazione di Wolf e sul canale di Slack? Che cosa sta succedendo

La rinascita dei podcast

Hai presente quando arriva il momento di dire l’avevo detto? Ecco. È quel momento. Perché finalmente è uscito un articolo che parla della rinascita dei podcast. L’avevo previsto da queste parti a marzo del 2016, dopo che erano rinate le newsletter. Al di là di questa osservazione, la lettura del pezzo in questione su Link vale comunque il suo tempo. Basta leggere con una tara: i podcast non sono mai morti e non è vero che erano spariti e che stanno risorgendo. Da tempo immemore ci sono progetti che funzionano su podcast, sia nel mainstream che in realtà meno conosciute. Il Guardian ne stila una classifica, per esempio: ce ne sono 50 da cui partire, se non ne segui.

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Qui, invece, i consigli di un abbonato di Wolf.

E di un altro: FinTech Insider
Stuff You Should Know
Il podcast di Francesco Costa
Daniele Bolelli – History on Fire

E di un altro ancora (tutti musicali, questi ultimi):
http://www.m2o.it/special/soul-cookin-reloaded/
https://www.mixcloud.com/BobSinclar/
https://www.mixcloud.com/Defectedrecords/
https://www.mixcloud.com/AlbertinoDeejay/
https://www.mixcloud.com/truthoughts/
https://www.spreaker.com/show/cassa-bertallot
https://www.spreaker.com/show/casa_bertallot
http://www.radioglobo.it/category/ibiza-selection/

I millennials non esistono

Come si suol dire in questi casi (è un modo di dire insopportabile, a dire il vero): «A meno che tu non abbia vissuto sotto a una bolla [o altre cose del genere], avrai visto questo video». Lo abbiamo condiviso anche su Wolf. È un video di Simon Sinek (autore, motivatore, consulente di marketing) in cui si parla di millennials. Sinek è un bravo oratore: lo capisci dai tempi, da come si muove, da come gesticola, da come parla e anche da quel che dice. È anche molto vicino al guru business model, chiaramente. Comunque. In questo video parla dei mali dei millennials. Che sarebbero, a suo dire, la generazione con la più bassa autostima di sempre, vittime di strategie di educazione famigliare fallimentari. Sono egoisti. Narcisisti. Pensano che tutto sia loro dovuto.

Il discorso è affascinante. Può anche contenere qualche elemento di verità. Ma non per i Millennials, che non esistono. Per una parte di essi. Quelli per cui l’analisi di Sinek è attinente. Quelli di cui ha esperienza Sinek. Ce ne sono molti altri. I Millennials non esistono, esistono le persone. Lo scrive anche Jared Buckley: «Il mio consiglio per capire i Millennials è trattarli come individui».

Aprire al digitale

Il 17 marzo c’è il cda di RCS e quelli come me aspettano con ansia i risultati del paywall del Corriere della Sera. Cairo, che non fa mistero di essere un tagliatore (anzi, ne fa un vanto. E se si parla di sprechi, come dargli torto, in effetti? Tocca poi vedere quali sprechi, ecco), ha fatto questa dichiarazione: «nel momento in cui avremo maggiori efficienze, sarà possibile per noi ragionare sul web, sul digitale che voglio approfondire anche andando negli Stati Uniti, per vedere il modello del Washington Post e del New York Times e magari stabilire anche delle relazioni».

È un’affermazione che mi sarebbe piaciuto leggere nel 2007. Viene oggi, con dieci anni di ritardo, ma prima Cairo non c’era, potresti obiettare. Il problema è che non bisogna ragionare sul web, sul digitale. Bisogna pensare alle strategie integrate.

Gallery di soldatesse in bikini

E se queste strategie prevedono di riproporre continuamente gallery fotografiche di soldatesse israeliane in bikini, sui social, con il solo scopo di fare click, be’, forse siamo di fronte a un problema. Peraltro, l’argomento viene trattato per quel che è in superficie: signorine avvenenti che pubblicano foto di loro stesse e che, almeno apparentemente, sarebbero soldatesse. Il tema non viene minimamente problematizzato. Questa fonte – ancorché di parte, è bene dirlo – prova a farne un’analisi che riguarda uomini e donne dell’esercito israeliano esposti sui social (già, perché ci sono anche i soldati sexy). Le gallery non sono strategie.

Instant articles

Un paio d’anni fa, Facebook ha lanciato i suoi Instant Articles. Sembrava che fossero la panacea di tutti i mali del giornalismo: tu pubblichi direttamente su Facebook, lui ti permette di monetizzare (almeno una parte) dei contenuti e ti premia algoritmicamente. Le persone restano su Facebook ma leggono te. Evviva.

Conoscendo Facebook come walled garden si doveva capire che qualcosa non sarebbe tornato. A distanza di due anni, tutta l’hype per il fenomeno è andata scemando, al punto che a Menlo Park stanno lavorando per cambiarli. Su cosa si concentrano? Be’, intanto sulla possibilità di mettere più annunci pubblicitari (uno ogni 250 parole anziché uno ogni 350 come consentito adesso). Sulla possibilità di implementare annunci pubblicitari sotto forma di video verticali (!) fra un articolo e l’altro. Sulla possibilità di dare agli editori e a chi pubblica contenuti più dati a disposizione (cioè, sia ben chiaro, dati che Facebook ha già e tiene per sé).

Tutto molto interessante, direbbe Rovazzi. Ma David Pemsel, CEO del Guardian, ha già spiegato in maniera molto chiara com’è andata con il primo giro di esperienze con gli Instant Articles: molto bene per la reach (la portata dei post), dolorosissimo per gli introiti. Cioè: se ti affidi a parti terze per pubblicare i tuoi contenuti e non li maneggi all’interno del tuo stadio di proprietà, rischi di non farci soldi. Il che non ci può stupire. Gli Instant articles vanno utilizzati all’interno di una strategia ben precisa, approfittando del fatto che piacciono all’algoritmo di Facebook. Vanno utilizzati per far circolare quei contenuti (o quelle parti di contenuti) sui quali puoi permetterti di non monetizzare in maniera diretta.

This Work

Il 31 marzo 2016, WeTransfer, il popolare servizio per inviare file di grandi dimensioni, ha aperto un magazine che si chiama This WorksL’obiettivo? Raccontare le illustrazioni che accompagnano l’esperienza d’uso di WeTransfer e gli artisti che le realizzano. Prima della creazione del magazine, se cliccavi sul nome dell’artista o su una delle immagini atterravi sul sito dell’artista stesso. Ora, invece, rimani in un ambiente che appartiene a WeTransfer.

Nell’intervista a Johan Lolos hanno alzato l’asticella: l’intervista e una selezione di foto di Lolos sono scaricabili proprio usando WeTransfer (se atterri su WeTrasnfer e il sistema ti propone casualmente una foto di Lolos, puoi scaricarle anche senza passare dal magazine). Con questa dicitura ad accompagnare: «Come parte del nostro impegno a mostrare il miglior lavoro creativo che si trova in giro, stiamo regalando una selezione di immagini del fotografo di viaggi Johan Lolos». L’intervista che si scarica in pdf con le foto ha una parte finale aggiuntiva che ci interessa molto, da queste parti.

Lolos è stato bravo a promuovere il proprio lavoro, oltre che a scattare foto evocative. Ha cavalcato le possibilità offerte in passato da Instagram con il suo primo account, ha viaggiato molto e fotografato, usando i lavori commissionati e pagati anche per aumentare la propria popolarità sul social network. Poi, dopo che Instagram, acquisito da Facebook, ha introdotto l’algoritmo, Lolos ha visto l’engagement generato dal suo account storico diminuire progressivamente e così ne ha creato un secondo, con meno followers ma più engagement. Perché evidentemente, oggi, se lavori con i contenuti non ti basta più saperli fare bene. I tre consigli che dà il fotografo sono preziosissimi (la traduzione è libera e del sottoscritto)

  • Prenditi il tuo tempo – Decidi di diventare un fotografo e arriva il tuo primo cliente? No, non funziona così. Non avere fretta.
  • Fai marketing di te stesso – Fai in modo che il tuo nome sia ovunque, contatta tutti quelli che puoi contattare nel mondo dei media. Prova a vendere una storia. Più le persone trovano il tuo nome online, più esposizione ottieni. Allora arriveranno i clienti
  • Fai esperienza (e relazioni) – Esci e fotografa, fotografa, fotografa. Passa molto tempo con altri fotografi, impara da loro e dai tuoi errori. Posso dire esattamente quand’è che le mie foto hanno iniziato a diventare come mi piacciono; è stato il giorno in cui ho iniziato a passare il mio tempo con altri professionisti. È così che ho imparato come funziona la luce, la composizione, la fotografia in generale.