Cos’è successo nel frattempo

Anteprima Crusoe: Sgroi spiega le stock option secondo le OTT

Nel numero di oggi di Wolf c’è un autore speciale. Si tratta di Maurizio Sgroi, che a breve condividerà con Slow News l’avventura di una nuova newsletter a pagamento. Si chiamerà Crusoe e sarà una newsletter verticale dedicata all’economia. Ho chiesto a Maurizio di scrivere per noi un pezzo per chiarire una questione che avevo sollevato nel numero 115, quando si parlava di come si potrebbe provare a salvare Twitter. La questione sembra semplice ma è complicata: da un po’ di tempo a questa parte, alcune OTT americane inseriscono le stock compensation a bilancio come costi. Per quel poco che ci capisco, mi sembrava un modo per gonfiare la bolla. Chi meglio di Maurizio per toglierci il dubbio? Così, ecco qui il pezzo: il GAAP delle stock option.

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A proposito: la campagna di crowdfunding di Crusoe sta per finire. Il numero zero lo trovi qui. Ci aiuti a diffonderla?

Facebook vs Snapchat

Ecco «The new camera» – per ora solo per l’Irlanda. È il terzo capitolo della guerra che Facebook sta muovendo a Snapchat, dopo l’acquisizione dei filtri Masquerade e dopo le «Stories» di Instagram. Filtri, effetti, «maschere» di «realtà aumentata». Il pulsante si trova in alto a sinistra – cioè in quel posto dove si mettono le cose su cui si punta di più. E c’è anche la possibilità di selezionare a chi condividere privatamente queste foto: a Menlo Park sanno che certi tipi di condivisioni si sono spostate sul privato. E hanno un bel dire che si tratta di un modo per servire una tendenza. Probabile, certo. Ma anche per evitare che chi usa abitualmente Facebook provi anche altre strade altrove.

Facebook e i branded content

Il social di Mark ha cambiato la policy per i branded content. Dopo averlo fatto per le pagine ha agito anche sui profili verificati.

Si tratta, per il momento, di una facoltà e non di un obbligo.

Tuttavia, andando a dare un’occhiata fra le policy (la traduzione italiana è terrificante) e la letteratura internazionale in merito e cercando di ricordare la convenienza specifica di Facebook si possono fare un po’ di considerazioni.

Primo. La definizione di branded content offerta da Facebook è molto restrittiva.

«Su Facebook definiamo “branded content” qualsiasi post che includa testo, foto, video, Instant Articles, link, video 360 o video live, provenienti da società editoriali, personaggi famosi o altri “influencer”, che contengano prodotti di terze parti, marchi o sponsor».

Il che, come fanno notare su Gizmodo, è un problema per chi parla di brand (magari taggandoli con la menzione di Facebook) senza però, per questo, aver prodotto un contenuto sponsorizzato.

Secondo: a Facebook sanno bene che il tema dei branded content è cruciale per molti e che si tratta di una transazione economica all’interno della quale non possono intervenire direttamente.

Terzo: mettere tutte le metriche a disposizione anche del cliente che riceve il branded content è un modo per togliere a chi li produce una forma di controllo, che consiste, se vogliamo, anche nella facoltà di mentire! Oppure, più semplicemente, nella facoltà di offrire al cliente un contenuto di un certo tipo, sul quale poi avviare anche una campagna a pagamento. Il cliente potrebbe pensare: ok, allora me lo faccio da solo. E su adexchanger prevedono che il numero dei branded content diminuirà. Magari non diminuirà drasticamente. Ma sono pronto a scommettere che questa sia una pratica per introdursi come terzo incomodo in una transazione economica che avviene sulle proprie pagine e sulla quale Facebook, fino a questo momento, non ha mai avuto la possibilità di ottenere vantaggi.

Probabilmente ciò avverrà come al solito: l’algoritmo ridurrà la portata dei branded content e quindi si dovrà comprare campagne per garantire al cliente l’engagement promesso. E il cliente potrà saperlo in ogni momento.

Quarto: la policy di Facebook contiene anche un filtro preventivo anti-snapchat. Prevede, infatti, che non si possano avere, nella foto profilo o nella copertina, immagini o loghi o marchi provenienti da terze parti. Inclusi gli Snapcode, ovviamente!

Twitter: abituarsi alla fine

Se c’è una cosa che mi piace è la fine delle cose. Intendiamoci: non sono un masochista. La fine delle cose mi dà una sensazione di completezza, di ciclica vitalità. La fine è parte integrante della realtà, figuriamoci del digitale – dove però sembriamo abituati a considerare tutto come se fosse eterno. La parabola di Twitter ne è la prova contemporanea. E tutto sommato è un bene che accada, non fosse che ci vanno di mezzo persone. Non fosse che questa non è una fine ma un inesorabile schianto contro un muro (probabilmente evitabilissimo un po’ di tempo fa). Twitter chiude Vine. Twitter licenzia altri 300 dipendenti. Twitter chiude sedi. Eppure Jack Dorsey sostiene di avere un piano.

Un piano che prevede, fra l’altro, incomprensibili test in cui la menzione con l’@ – inventata dagli utenti di Twitter – viene rimossa dai Tweet. Non è uno scherzo. Abituarsi alla fine.

Spacchettare

Pier Luca, nel 2015, scriveva un pezzo condivisibilissimo dal titolo Spacchettare o morire. Donata, nel gruppo di conversazione di Wolf, si chiede se (o quando) si potrà comprare il singolo articolo di Wolf. La richiesta porta a una conversazione interessante, con alcune osservazioni.
Lo «spacchettamento», per una realtà piccola, comporta una serie di considerazioni:

  • il prezzo (a quanto si mette un singolo articolo?)
  • l’archivio (in fondo Wolf è già spacchettato: se ti abboni per un mese hai accesso a tutti i singoli pezzi fin qui prodotti. Come accade su The Information)
  • la necessità di far circolare meglio il «brand» e i suoi contenuti in maniera porosa (per esempio, consentendo agli abbonati una serie di condivisioni dalle quali far accedere gratuitamente ad alcuni contenuti. Il che, una volta di più, ci fa capire quanto sia importante che team di giornalisti e team di tecnici collaborino!)

Verifica

Riccardo Luna ha spiegato un errore di AGI, scusandosi. È encomiabile, anche se la dinamica dell’errore è molto grave. Anna Masera ha scritto che ci serve più fact checking. Io ho rilanciato la mia proposta di luglio 2015 – ancora sostanzialmente ignorata: adottiamo nelle redazioni il Verification Handbook (e successivi aggiornamenti). Chissà, forse a furia di ripeterlo si riuscirà a favorirne la diffusione. Nessuno si preoccupi: rinuncio volentieri alla paternità dell’idea. In fondo non è nemmeno un’idea, dovrebbe solo essere buonsenso!