Cos’è successo nel frattempo

Si fa presto a dire fake news

Oltre alle altre istanze ben note e di posizionamento, è il modello di business che detta gran parte dell’agenda digitale delle testate. Un modello di business che, come noto, cerca di spremere all’osso il bene più immateriale e abbondante che esista (addirittura simulabile): il click.

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Il giorno prima Repubblica – come Corriere – cade in un trappolone autoindotto. Troppo ghiotta l’idea di sparar a zero su Trump anche per la Statua della Libertà. Solo che era un pezzo satirico. Corriere rimuove. Repubblica – almeno – chiede scusa ai lettori.15134665_10209481773095239_6559450128973376061_n

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Lo fa, però, dando la colpa ad altro. Cioè al fatto che «gli eccessi della campagna elettorale possono portare a ritenere credibile quel che non lo è». Ma almeno lo fa.

Il giorno dopo, però, ci risiamo.

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Il titolo cita un pezzo del Financial Times. Dove però le cose non stanno esattamente come si dice, ecco.

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Il pezzo, che si può leggere passando da Google, attraverso il paywall poroso del Financial Times, è un editoriale di Wolfgang Münchau che inizia così (traduzione e grassetti sono del sottoscritto): «Dopo Brexit e Donald Trump, prepariamoci al ritorno della crisi dell’eurozona. Se Matteo Renzi, primo ministro italiano, perderà il suo referendum costituzionale il 4 dicembre, mi aspetto una serie di eventi che potrebbero sollevare la questione della presenza dell’Italia nell’eurozona».

Le cause alla base di questa possibilità estremamente preoccupante non hanno nulla a che fare con il referendum stesso. La più importante è la performanceeconomica dell’Italia da quando ha adottato l’euro nel 1999».

In homepage di Repubblica l’articolo veniva lanciato così.

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Adesso il pezzo è stato ridimensionato fin dal titolo.

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Il 20 novembre Sport Mediaset pubblica un pezzo sugli scontri fra ultras della Roma e polizia a Bergamo, dopo Atalanta-Roma.

L’immagine di accompagnamento sembra un po’ strana.

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E in effetti non riguarda gli scontri di Bergamo, ma è un’immagine di repertorio di Parigi.

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Sul sito di SportMediaset l’immagine è stata rimossa. Ma se si cerca su Google «sportmediaset bergamo roma scontri» la si trova ancora come thumbnail.

La carrellata potrebbe continuare. E continuare. E continuare.

Tutti possono sbagliare, e di errori se ne sono sempre commessi e se ne commetteranno sempre. Ma qui siamo di fronte ad un fenomeno che, nella sua complessità e nelle sue due manifestazioni, richiede una soluzione drastica.

La prima manifestazione, quella di cui si preoccupano tutti, è la circolazione delle notizie false su Facebook. A me, devo dirlo sinceramente, non preoccupa minimamente, in sé.
Mi preoccupa se la si somma alla progressiva perdita di fiducia nei giornali causata dai giornali stessi che, da quando si sono messi a fare il clickbait e hanno iniziato a usare i social per fare i click, hanno esasperato pratiche che esistevano anche prima (con la differenza che adesso è facilissimo accorgersene).

Notizie false sui social e notizie false sui giornali sono una miscela esplosiva. Il problema è la commistione fra le due cose, guidata dal modello di business che Facebook ha alimentato.

Non ho alcuna fiducia nel fatto che si possa sperare che le persone imparino a discernere da loro e a segnalare le notizie false a Facebook. E non ho alcuna fiducia in Facebook. Intendiamoci: a Menlo Park devono prendere in considerazione la questione e risolverla, anche se non è facile perché implica selezioni umane – nel 2016 un algoritmo non può fare fact checking. E non lo farà nel 2017 e nemmeno nel 2020 –, nuove accuse di «essere un editore» e compagnia cantante.

Ma questo è un problema di Facebook. Intendiamoci: se l’ecosistema che Facebook crea per i suoi iscritti diventerà intollerabile perché la circolazione delle bufale sarà eccessiva, gli iscritti che troveranno questo intollerabile, semoplicemente, smetteranno di usarlo.

Io mi preoccupo molto di più del fatto che aver sposato la strategia ed essersi legati mani e piedi a Facebook ha generato il mostro che vediamo oggi. È questo il problema. Perché se i giornali adbicano al loro ruolo, allora si lascia tutto in mano a Facebook, Google e alle sorelle del monopolio della scoperta. Che stanno ridefinendo il nostro futuro, come scrive Vivek Wadhwa sul Washington Post. Dove dovrebbero trovarli, gli anticorpi, i lettori? Su Facebook? Su Google? I giornali si renderanno finalmente conto del loro ruolo sociale? Impareremo a raccontare la Silicon Valley e il resto del mondo senza guardarlo dallo schermo di uno smartphone e dalla schermata del real time di Google Analytics?

Ho proposto nuovamente a Riccardo Luna, ad Anna Masera, a Giovanni Smorto (non li ho scelti a caso. Smorto per Repubblica.it, Luna perché ha confessato un errore in AGI su Medium: gli ho scritto anche lì, Masera perché è Public editor e dirige una scuola di giornalismo), a tutti coloro che possono concretamente lavorare sul tema, di adoperarci per diffondere il Verification Handbook e la sua cultura all’interno delle redazioni. Non perché io sia convinto che sia la panacea di tutti i mali, ma perché la forma mentis che ne governa i principi è fondamentale: se la si implementa nelle redazioni si evitano molti errori dovuti alla fretta. Cioè al modello di business.

Ne ho ottenuto un retweet.

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Di questi tempi vorrà dire qualcosa?

Comunque. Il modello di business va ripensato da capo. Nessuno ha trovato la quadra? Non è vero. Altrove, qualcuno sì. Nascono piccole realtà, i grandi cominciano ad applicare la diversificazione – banalmente e semplicemente suggerita nell’economia delle soluzioni parziali –, alcuni la applicano da tempo. È il momento di sperimentare anche qui.

E trovare il modo di offrire un servizio ai lettori che non debba essere accompagnato dalle scuse o dalle rimozioni o dai titoli cambiati.

Il giornalismo si sta condannando all’irrilevanza. Deve ripensarsi e, come suggerisce anche Frederic Filloux, deve ripensare un modello di business che sia sostenibile e premi il giornalismo solido, verificato, di qualità.

Team per la trasformazione digitale

Con un Tweet, Piacentini ha annunciato i primi membri dello staff del suo team. Sul sito si legge che «i decreti di nomina di queste figure sono in fase di registrazione presso la Corte dei Conti».

Si tratta di Simone Piunno, Raffaele Lillo, Giovanni Bajo, Guido Scorza, Marisandra Lizzi, Simone Surdi. Il primo gruppo è variegato, anche in termini di selezione. La scelta è stata quella di scrivere sul sito le modalità con le quali ciascuno è entrato o era in contatto con Diego Piacentini (il che è apprezzabile in termini di trasparenza). Simone Surdi spiega, nella sua biografia: «Il 10 febbraio leggo sui giornali che Diego Piacentini sarebbe tornato in Italia per lavorare 2 anni per il Governo Italiano sul digitale e sull’innovazione e gli scrivo subito una mail. Obiettivo: poter lavorare con lui, a qualsiasi condizione»

Simone Piunno dice: «ho avuto la fortuna di trovare in Italia ambienti stimolanti, internazionali, con progetti d’avanguardia e soprattutto brillanti compagni di viaggio che regolarmente sono diventati cari amici». È stato proprio uno di questi a presentarmi a Diego». Guido Scorza: «È stato Paolo Barberis, Consigliere per l’Innovazione del Presidente del Consiglio a presentarmi Diego Piacentini in occasione di una delle sue prime visite a Palazzo Chigi». Marisandra Lizzi: «Ho conosciuto Diego nel 2003 perché ci serviva qualcuno che convincesse la stampa italiana che l’eCommerce non era morto nel nostro Paese». Giovanni Bajo (Pyton Italia): «Quando sono stato contattato da Diego, ero inizialmente curioso dell’iniziativa ma ho approcciato l’incontro con un po’ di scetticismo. Diego ha saputo trasmettermi non solo l’entusiasmo per il progetto, ma anche la consapevolezza che possiamo davvero fare qualcosa per migliorare il nostro Paese».

Meme o non meme

Ma se volessi fare un meme con opere di terzi(film, per esempio)? In fondo lo fanno tutti, no? Lo chiede una nostra abbonata nel gruppo di conversazione di Wolf. Un abbonato propone un link con la spiegazione delle norme. Insomma: anche se lo fanno tutti, dalle nostre parti in teoria non si potrebbe proprio.

Come ti racconto la notizia

Dissertazioni a Glocal, con Marco Alfieri, Daniele Chieffi (ENI), Francesco Costa (Il Post), Ivan Berni (direttore master in giornalismo dello IULM) e il sottoscritto. Il video integrale è qui.

Slide

Modelli di business secondo me e secondo Pier Luca Santoro (mettere insieme le slide per ottenere il workshop). Verifica delle fonti secondo me e secondo Andrea Coccia.

DNI

Sono usciti i risultati della Google DNI. Qui c’è la lista dei progetti finanziati (sulla quale torneremo).

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Slow News ha partecipato a questo secondo «round» della DNI con il progetto Verticals, di cui Wolf è prototipo. L’idea è semplice e l’abbiamo spiegata così.

«Verticals è un progetto giornalistico dedicato a pubblici di nicchia. È realizzato da giornalisti esperti, ben retribuiti ed esperti nei propri settori. Verticals sarà distribuito attraverso un sistema di newsletter a pagamento».

Insomma, l’idea è di mettere insieme tutte le leve che abbiamo descritto nel nostro modello di business per realizzare un servizio rivolto a pubblici «di nicchia».

Il modello prevede:

  • un ritorno a buone pratiche che vengono riproposte ovunque a parole ma mai realmente realizzate;
  • un giornalismo di qualità, sostenibile, che si ripaga grazie alle sottoscrizioni dei lettori;
  • un ribaltamento delle percentuali editore-giornalista (chi produce il contenuto si prende il grosso degli introiti da abbonamento, coperte le spese);
  • la realizzazione di un meccanismo virtuoso di rapporto relazionale fra le redazioni e i pubblici di riferimento con eventi dal vivo e interazioni reali.

Purtroppo Verticals non ha superato in maniera positiva le valutazioni del consiglio della Google DNI.

Da Google non rilasciano alcun tipo di valutazione (quindi non ci è dato sapere quale parte del progetto non sia piaciuta, in cosa non siano stati soddisfatti i criteri per avere accesso al fondo, se ci sia stata o meno una classifica di merito e in che posizione ci si collochi).

Inutile dire che avere accesso a questo fondo sarebbe stato molto importante per noi, perché sarebbe stata una svolta importante per la nostra attività. Pazienza: questo non è, per noi, motivo di resa. Anzi: siamo sempre molto convinti che il progetto abbia un senso e che si possa fare. E lo faremo, finché non ci diranno che non funziona le persone che sul giornalismo hanno davvero potere di dirci se il nostro progetto è valido o no: i nostri lettori.
Oggi renderemo pubblico tutto il progetto, così come lo abbiamo presentato alla Google DNI.