Cos’è successo nel frattempo

Lettore severo

Maurizio Molinari risponde – evviva! – nello spazio del public editor de La Stampa ad un lettore che critica alcuni titoli troppo enfatici. Molinari difende senza se e senza ma la scelta di titolare in maniera «forte» sui superstiti ritrovati dopo due giorni a Rigopiano.

___STEADY_PAYWALL___

Schermata 2017-02-01 alle 02.39.45

«In questo caso il lettore può aver ragione a notare l’enfasi, ma è troppo severo nel giudicarla: a volte è giustificata dalla drammaticità della situazione. Anche nel caso del titolo sulla neve mangiata, il titolista ha ripreso quello che i superstiti hanno detto. I giornali non sono riviste scientifiche e hanno sempre partecipato con emozione nel racconto di un evento commovente, riportando la temperatura del sentimento comune».

È più che vero che i giornali non sono pubblicazioni scientifiche. Tuttavia con i lettori bisogna fare i conti.

E se non si vuole fare i conti con i lettori – in questo caso è uno solo, giusto? Be’, dovresti vedere cosa succede in redazione a Slow News quando arriva una lamentela o quando un abbonato ci comunica che non vuole più rinnovare. Facile, con pochi abbonati? Più o meno. Dipende da quando ci tieni – bisogna fare i conti con un’altra questione.

Se tutti i giornali intercettano – come suggerisce Molinari – il sentire comune, e tutti (da La Stampa all’Ansa, da Blasting News al Mattino di Napoli) titolano «Il miracolo», dove va a finire l’identità editoriale? A cosa serve quel titolo? Come ci connota? Come ci distingue? Dov’è il tono di voce con cui parliamo ai nostri lettori, quelli che ci conoscono e sono ancora disposti a spendere qualche euro per comprarci?

Schermata 2017-02-01 alle 02.45.27

Ecco. Appunto.

Schermata 2017-02-01 alle 02.45.41

Qualcuno commenta giustamente, sul nostro gruppo di conversazione, che «il problema è che l’informazione, ormai, coincide con l’infotainment, almeno nel mainstream».

Io vedo una serie di altri problemi, che determinano questo come conseguenza. È vero, dicevo poco più su, che i giornali non sono pubblicazioni scientifiche. Ma per fare il giornalista ci vuole un metodo. E il metodo richiede anche distacco. Si può far emozionare – se serve alla storia – anche senza un titolo evocativo. Anzi, come suggeriva Umberto Eco, più si suggerisce ai nostri lettori che tipo di emozione dovrebbero provare, più si ricade nel kitsch, nel cattivo gusto, nel patetico.

Io non mi fido di un titolista o di un giornalista che si emoziona. Un giorno potrebbe fare male il suo lavoro perché si è emozionato. E noi non vorremmo un avvocato che si emoziona durante una causa – a meno che non sia funzionale –, un medico che si emoziona mentre opera, un ingegnere edile che si emoziona mentre fa i calcoli dei tensori di una struttura. Non vedo perché dovremmo volere, allora, giornalisti che si emozionano. Il problema sta nel concetto di professione giornalistica. E poi, ovviamente, nel modello di business che richiama all’infotainment.

È l’anno dei podcast

Ho finito il 2016 dicendo che se il 2016 è stato l’anno del lettore (seh) e l’anno della rinascita delle newsletter, il 2017 dovrà per forza essere l’anno dei podcast.

Aspettavo che qualcuno lo dicesse sul serio. In realtà è già successo.

D’altra parte, il New York Times ha aperto il suo podcast per le news e quindi siamo tutti autorizzati a pensarlo.

Nella conversazione, un fedele lettore di Wolf ha fatto un elenco dei podcast che segue. Te li ripropongo qui, perché magari su Facebook ci vai sempre meno e perché sono importanti:

FinTech Insider
Stuff You Should Know
Il podcast di Francesco Costa
Daniele Bolelli – History on Fire

E tu, quali podcast ascolti? Scrivilo nel forum!

Che fa Google con le Images e che cosa possiamo imparare noi per sfruttare lo strumento

Da qualche giorno, se fai ricerche per immagini di termini che hanno occorrenze a sufficienza, Google ha cambiato modo di visualizzare le immagini che propone con il motore di ricerca verticale Google Images.

Parallelamente al rilascio, c’è stato, per quattro giorni, un bug che impediva di ingrandire le immagini.

Ma come funziona esattamente? Se cerchi Alberto Puliafito su Google Images, è tutto come prima (inclusa la mia faccia, e quella di un mio omonimo che se gli togli il pizzetto e i capelli lunghi mi somiglia pure).

Schermata 2017-02-01 alle 02.46.32

Se invece fai una ricerca con qualche occorrenza in più, che so, tipo «Renzi», ecco la nuova visualizzazione. Che riordina un po’ meglio le immagini, tanto per cominciare.

Schermata 2017-02-01 alle 08.00.46

E che poi fa una cosa molto interessante sulla pare superiore (che è il vero upgrade).

In un carosello scorrevole di immagini su fondini colorati, Google Images propone una serie di parole chiave correlate alla keyword che abbiamo cercato e la sensazione è quella di essere all’interno di una specie di bacheca di social fotografico.

Schermata 2017-02-01 alle 08.09.35

Come fa Google a suggerire quelle parole? Siamo alle solite: Google non è un oracolo, quindi evidentemente trae informazioni dal contesto in cui quelle immagini sono inserite e dal tipo di ricerche che vengono fatte dalle persone su Google Images.

La parte interessante è che, esattamente come fa Youtube con le sue ricerche interne, Google Images ora offre una serie di parole correlate che sono diverse dalle parole che si ottengono dal completamento automatico del motore di ricerca primario.

E che sono diverse anche dalle ricerche correlate che si trovano in fondo alla serp del motore di ricerca primario per la medesima keyword. Ma proprio radicalmente diverse.

Schermata 2017-02-01 alle 08.10.39

In più, sono diverse anche dai suggerimenti dei completamenti automatici di Google Images stesso!

Schermata 2017-02-01 alle 08.26.24

Il che significa una serie di cose, e solo alcune sono parzialmente ovvie:

  • anche Google images offre diverse tipologie di correlazione fra le parole chiave cercate dalle persone e, evidentemente, le due tipologie di keyword che suggerisce sono differenti perché hanno funzioni differenti e pescano da tipologie di ricerche differenti (capire in che senso sarà poi compito di chi approfondirà meglio la questione, ma non è poi così importante, ai nostri fini)
  • le persone utilizzano il motore di ricerca di Google Images in maniera diversa rispetto a come usano il motore di ricerca testuale (per esempio, se si guarda il carosello di parole chiave relative alla query «Renzi», le prime parole che compaiono sono altri nomi di politici. Segno che c’è chi cerca il nome dell’ex premier associato ad altri personaggi con una query intention ben precisa: per trovare sue foto con quei personaggi. Speriamo che non sia per poi appropriarsene senza curarsi della proprietà di quelle foto, ma è molto probabile che sia proprio così. Questo, però, purtroppo, è ancora un altro tema)
  • Google impara da queste abitudini di ricerca e si adatta e cerca di riadattare il proprio prodotto in funzione di massimizzare i click al suo interno (sulle immagini lo fa ormai da tempo immemore, da quando si è arrogato il diritto di incorporarle al proprio interno soddisfacendo il grosso delle ricerche senza restituire traffico ai siti «proprietari» di quelle immagini.
    D’altra parte, Google non è il solo cattivo: una delle strategie più utilizzate per la monetizzazione nel primo decennio dei 2000 era farcire i siti di gallery di decine, anche centinaia di immagini spesso «rubacchiate» qua e là senza alcuna cura e spesso sexy, come puoi facilmente immaginare. Poi, questa strategia è stata copiata anche da molti siti d’informazione).
  • Cosa succede, allora, se clicco su una delle parole che Google mi propone? Proviamo a cliccare sulla prima a sinistra. «Merkel». Il risultato segue la logica delle ricerche correlate di Google testuale, ma in maniera peculiare. La keyword diventa su fondo bianco, appare la «x» per chiuderla, appaiono foto di Renzi e Merkel e altre parole chiave, diverse e, secondo Google, relative a entrambi.
    Schermata 2017-02-01 alle 08.15.05
    «Relative» si fa per dire. «Alessandro Siani», per esempio, c’entra solo in qualche modo (la ricerca è relativa a un episodio: Siani che fa «satira» – passatemi le virgolette – ad Amici, dando a Renzi del «Pinocchio»). Se ci clicco, però, non ottengo poi molto di pertinente. A parte un Alessandro Siani che appare in basso.
    Schermata 2017-02-01 alle 08.23.31
    Del resto, Google non può far miracoli: una foto con Renzi e Siani non c’è, e lui non la trova anche se qualcuno cerca.
  • Google sta puntando sulla diversificazione del prodotto in senso verticale, in maniera sempre più evidente, anche se il «cappello» sembra omogeneo
  • Queste parole chiave sono molto preziose nell’ottica di piani editoriali per intercettare traffico (sebbene Google Images, per la sua struttura, sia avaro di click verso l’esterno) e anche per fare la solita operazione che rende la ricerca di keyword un’operazione umanistica di comprensione del nostro pubblico e un’operazione di ricerca di mercato. Scopro quali parole, ma anche quali ambiti di riferimento (ancora una volta: cercare le keyword non è una roba da nerd) vengono cercati in relazione a qualsiasi argomento e posso utilizzare queste informazioni, che provengono da una quantità enorme di dati di ricerca, per aiutarmi a costruire piani editoriali coerenti e strutturati.
    Schermata 2017-02-01 alle 08.29.08
    Su qualsiasi argomento che sia sufficientemente massivo da consentirlo. Per dire: guardo la SERP di immagini per «San Valentino» e trovo prima food, poi città (quindi viaggi) e poi ancora food Schermata 2017-02-01 alle 08.31.29
    Schermata 2017-02-01 alle 08.31.33
    e poi cartoline, oggettistica da acquistare e Snoopy e Charlie Brown.

Google al solito fa i suoi interessi. Ma è un contenitore importantissimo di dati da imparare a utilizzare.

Crowdfunding a go-go, ancora per un po’

Claudio Bedino, co-fondatore di Starteed (una piattaforma di crowdfunding), ha pubblicato su Medium un documento interessante per vari aspetti. Il primo è che offre un elenco molto variegato di piattaforme su cui fare crowdfunding. Con Wolf lo facemmo su Produzioni dal Basso. Lo abbiamo raccontato per filo e per segno nel numero uno della nostra newsletter. L’elenco è utile per scegliere eventualmente la propria realtà di riferimento, quella che ti sembra migliore per un eventuale progetto.Schermata 2017-02-01 alle 09.00.03

Ma funziona? Su Wolf pensiamo di sì, e la crescita del mercato in termini di finanziamenti ricevuti (sebbene, come giustamente nota Bedino, non stratosferica in termini di valori assoluti) è interessante e lascia margine per pensare che in futuro ci sarà ancora spazio, eccome, per questo tipo di sostegno a progetti nascenti o che proseguono. Mettendo insieme tutte le tipologie possibili di crowdfunding, quelli fatti su piattaforme, quelli «fai-da-te» (tipo quello di Valigia Blu, per capirci) o quelli lending (cioè, prestiti a tutti gli effetti effettuati da investitori in cerca di rendimenti) o, infine, quelli equity (attraverso i quali si ha diritto ad una quota di società), sono stati raccolti, cumulativamente (da quando cioè esistono le piattaforme), 91.790.909,63 €.

Per paragone con un colosso come Kickstarter, ma giusto per capire quanto pesi la possibilità di avere un prodotto che faccia breccia internazionalmente, l’ammontare cumulativo dei finanziamenti (cioè dal 2012 a oggi) è pari a 2,8 miliardi di dollari.

Da tenere d’occhio l’equity crowdfunding, visto che la legge di stabilità l’ha esteso – con incentivi per gli investitori – a molte PMI.

I video che contano veramente per te

Il 27 gennaio Facebook ha fatto di nuovo una modifica all’algoritmo che regola i nostri news feed, presentandola nuovamente con la consueta terminologia (che a me genera l’orticaria, anche se ci sono abituato). Si parla di video e cambiano i segnali. Facebook spiega che dopo aver preso in considerazione le azioni fatte sui video, la percentuale di completamento, se il video viene visto in mute o con l’audio attivo e se le persone lo aprono a pieno schermo o meno, da Menlo Park spiegano che ora sistemeranno le cose per pesare meglio la percentuale di completamento e premiare i video lunghi che generano reale interesse. In altre parole: se fai video di 10 secondi o video da 3 minuti, a parità di percentuale di completamento quello da 3 minuti vale di più.

Il che è anche abbastanza logico e intuitivo ed è di interesse specifico sia per Facebook sia per un produttore di contenuti. Se vedo per l’80-90%, un video da 3 minuti sono fortemente interessato a quel contenuto. Se vedo per l’80-90% un video da 10 secondi, magari mi è solo partito in autoplay (altra cosa di cui, mi auguro, Facebook terrà ben conto).

Insomma, ancora una volta l’algoritmo di Facebook va verso la duplice direzione di:

  • massimizzare il tempo di permanenza al proprio interno
  • premiare i contenuti che consentono di massimizzare il tempo di permanenza al proprio interno

Entrambe le cose sono di interesse per i publisher perché spiegano quanto sia importante produrre quel tipo di contenuti.