Come annegare il pensiero

Nel mio ultimo contributo a Wolf avevo abbozzato un’analisi della comunicazione politica nel nostro paese.

___STEADY_PAYWALL___

Cercando di non schierarmi e di neutralizzare il più possibile distorsioni e idiosincrasie, ho puntato ai processi in atto e sono giunto alla conclusione che al di là delle ideologie e dei valori dei singoli schieramenti stiamo vivendo innanzitutto uno scontro di narrazioni.

Come nota Mafe de Baggis, in questo momento nella proposta politica italiana dei vari schieramenti non esiste un campione progressista (tanto meno a sinistra), ma una diversa gradazione di posizioni tra il reazionario e il conservatore. Si reagisce e si conservano cose anche molto diverse tra loro, ma la lettura del presente è tutta orientata sulla difensiva e sulla tutela di quel che galleggia all’orizzonte. Manca una visione di lungo periodo, lamenta il Direttore, proprio ora che forse ce ne sarebbe più bisogno:

«Questo sarebbe il momento di una politica capace di immaginare e di costruire. (…) [E invece] Non c’è un’idea di futuro. Non c’è uno sguardo in avanti. Ci sono solo odio, slogan, semplificazioni, chiacchiere da bar, violenza (reale o evocata) e tanta paura. La stessa paura che devono aver provato le aristocrazie quando il loro tempo era finito, o i monaci miniatori quando la stampa a caratteri mobili iniziò a diffondersi.

I tempi bui che corrono, se le cose vanno come devono andare, saranno soltanto l’ennesimo capitolo nero della nostra storia. Non da dimenticare come, evidentemente, abbiamo dimenticato gli altri.

Intanto, però, cerco disperatamente qualcuno che abbia il coraggio di immaginare, senza paura, e di riportare al centro del dibattito politico l’umanità».

(il post completo è qui )

Scontro tra narrazioni significa che non sono i fatti o le ideologie in sé a fare la differenza ma il contesto narrativo in cui vengono inseriti. Il caso della chiusura dei porti italiani è esemplare: lo stesso identico contenuto proposto da un ministro del Partito Democratico o da un ministro della Lega viene percepito in modo diametralmente opposto.

Il motivo lo avevamo indicato chiaramente: è insito nel processo stesso di narrazione un meccanismo polarizzante che ci porta automaticamente e naturalmente ad accettarla o a respingerla in modo netto a seconda che il narratore sia amico o avverso.

Oggi vorrei proseguire nella riflessione  partendo da un tweet che riporta una dichiarazione di Roberto Saviano in  conversazione con Diego Bianchi, venerdì scorso a #Propaganda Live.

Nemmeno se il genio della lampada mi avesse proposto di esprimere tre desideri avrei saputo pensare a una dichiarazione più perfetta per completare il discorso della scorsa settimana.

Saviano è una persona fuori dal comune, anche fuori dal sacrosanto diritto di avere una vita libera, una vita normale. Nella sua psicologia l’integrità è al centro e una persona può dirsi compiuta solo quando si pronuncia contro l’ingiustizia contro tutto e contro tutti, anche a scapito della vita.

Non è strano dunque sentirlo affermare ciò che afferma: là fuori qualcuno si sta prendendo gioco di te sparando panzane. A ciascuno il suo: è ora di perdere un po’ di tempo a smentire quelle panzane.

Gomorra è uscito nel 2006. Se vivi segregato nella tua narrazione, dodici anni sono un’era geologica. Se vivi segregato nella tua narrazione il tempo è una risorsa preziosa. Non è ovvio essere vivi. Non è ovvio essere vivi anche domani, quindi dedicare del tempo o meno a qualcosa è diverso, pronunciarsi o no può fare (la) differenza.

Eppure se l’obiettivo del tempo e delle energie è sovvertire una narrazione farlocca ristabilendo la verità, quel tempo e quelle energie temo andranno sprecate. Le falsità che pullulano là fuori non sono a piede libero perché qualcuno le crede vere. Sono lì per arredare una narrazione che a dispetto della realtà si prende lo spazio dell’immaginario di una fetta molto rilevante di popolazione italiana che ha bisogno di soffiarci dentro come in una zampogna.

È un’idropisia dell’immaginario in cui domina la rivincita dello sfacelo e del buzzurro. Teniamo conto che per controbilanciarlo non basta affermare la nostra alterità. Non basta chiamarci fuori, col più classico dei «not in my name».

Temo non basti nemmeno smettere di usare il linguaggio dell’avversario (come pensa Giulia Blasi) perché ogni tribù parla innanzitutto ai suoi e in più smettere rientra negli antidoti razionali e dunque serve più a noi che a smontare il meccanismo.

Meccanismo che invece capitalizza benissimo il fatto che l’istinto bestiale subumano abita in ognuno di noi senza eccezioni. Quando in un filmato porno il predatore umilia l’abusato, afferma una feralità che appartiene al subumano indipendentemente dall’essere reale o meno, dall’essere in atto o meno. Anche il pecoreccio che è in me gode del potere di sospendere l’incredulità. Poco importa se io non mi comporterei mai così, perché in quel momento in me quella roba lì risuona, agisce.

Importa poco o nulla che sia vera o meno: per un istante il mio immaginario impresentabile, irricevibile domina sovrano la scena. Tutta la scena.

L’attimo dopo svanisce e non è mai esistito. Ma la parola sovrano non è scritta a caso: per un istante la belluinità sotterranea che abita in me, sempre abolita, annullata e acculturata nel politicamente corretto, si prende la rivincita. A sfregio. Se in quell’istante qualcuno razionalmente venisse lì ad aprirmi gli occhi, a convincermi che la vita è altrove, che quella non è persona, non è vita, non è verità, io lo manderei a ranare. Perché lo so già, perché non è su quel piano che si gioca la funzione liberatoria di quell’attimo.

Io sono anche quella cosa lì e anzi il fatto di poterlo vivere in un ambito separato (sovrano) contribuisce a evitare che il rimosso e l’inconfessabile della mia belluinità NON prendano il sopravvento e se ne tornino sullo sfondo. Il momento sovrano è l’attimo in cui tutte le regole si sospendono e si ribaltano e solo per quell’istante io sono pienamente quella cosa lì (ad esempio uno stronzo). Senza mediazioni, senza intermissioni, senza nessuno che venga lì a dirmi guarda che non si fa.

Nevio Gàmbula, folla senza sovranità, Milano, Aprile 2018

Seconda cosa non secondaria che ne discende: in quell’istante, essendo pienamente me stesso in quanto merda umana realizzata, io sospendo l’incredulità. Condizione fondamentale perché questa cosa rimanga definitivamente sullo sfondo e non prenda il sopravvento è che in qualsiasi momento possa prendersi la scena. Potenzialmente, per un attimo inconsulto deve poter rubare la scena.

Deve essere un possibile che io devo poter attingere sempre, il mio rompere il vetro in caso di emergenza. Se io la reprimo, se io la comprimo, se io la rimuovo, essa suppurerà fino a esplodere distruggendo la mia vita. Sono così molti dei casi in cui una fantasia, una sciocchezza, un capriccio inconfessabile prendono il sopravvento e diventano realtà. Non di rado cronaca nera.

Storicamente, nella storia della politica, da molti secoli e in modo non infrequente alcune fazioni fanno leva sulla pretesa sovrana di queste istanze per andare al potere. Tribuni mozzaorecchi e pulitori etnici si assumono l’onere di rappresentare l’istinto belluino della massa e si propongono di fare cose al posto mio, un genere di cose che io da solo, in quanto individuo, non farei mai.

Io col mio nome patrio non mi sognerei mai di dire apertamente che un essere sessuato in senso opposto da me non può uscire, guidare una macchina o prendere un diritto che è anche mio. Per fortuna c’è la fazione X che lo propone e che, se io non mi oppongo, lo fa. Non si dice e non si fa, ma forse, in fondo in fondo, era ora che qualcuno ci pensasse, perché la situazione stava sfuggendo di mano.

Sono esempi estremi, però aiutano a capire.

Facciamo un esempio nell’attualità. Io non so se sarei capace di impedire esplicitamente in prima persona che un barcone di disperati attracchi nei miei porti. (Ho io dei porti? Sì, ma andiamo oltre). Io molto probabilmente non sarei in grado di rispondere in prima persona di una decisione di questa portata.

Ma se c’è una narrazione che lo giustifica, che lo cattura e lo rende funzionale a un obiettivo sociale (qualcosa che in estrema sintesi suona «prima gli italiani») e anzi lo rende necessario io non mi oppongo. Se queste 600 persone non attraccano oggi, magari 60.000 non partiranno in futuro. Tanto si salvano. Tanto vanno in Spagna. E prima di partire verso l’Italia la prossima volta ci pensano.

Se poi c’è un alibi concreto, un accordo come quello di Dublino, mal fatto e impraticabile, ecco che la cosa politicamente ha senso.

Il motivo per cui cose come queste avvengono non è che qualcuno non si è preso la briga di dire come stanno le cose.

A parte casi estremi irrilevanti, la stragrande maggioranza di chi nei giorni scorsi ha sostenuto la politica della tolleranza zero sugli sbarchi, sui porti e sulle ONG  ha perfettamente chiaro il fatto che siano in ballo centinaia (e poi decine di migliaia) di vite umane. Non è la verità che manca. Non è la verità a dover essere ristabilita.

È un’istanza umana pre-narrativa che deve impedirmi di cedere alla lusinga di quella narrazione. Una narrazione altrimenti che mi serve! Che tutela il mio accesso all’istante sovrano in cui io nel mio immaginario sono signore e padrone delle mie coste senza tutto quel casino di traffici umani «illegali».

Il fatto che io o Roberto Saviano, inteso anche come archetipo, «iniziamo a perdere un po’ di tempo per smentire tutte le cazzate che girano in rete» non serve a nulla. Se non forse a rassicurare e ad accarezzare l’umanità ferita di chi la pensa già come me o come Saviano.

Ma non ha nulla da dire sulla predatorietà del meccanismo narrativo che scatterà inesorabile. Non si ferma a mani nude una narrazione che è già una cavalleria lanciata all’assalto: si viene travolti e risucchiati nel meccanismo narrativo. Fine del discorso.

Mi sono anche  preso la briga di guardarmi 14 minuti in video di Matteo Renzi che in live su Facebook ragiona a voce alta sull’attualità politica.

Quattordici minuti sottratti al riordino dei libri di casa (una faccenda che dice di accingersi a fare ma che in video non fa mai). «Tanto c’è tempo, prima che il Parlamento faccia le Commissioni».

A modo suo, in modo renziano, Renzi si affilia alla stessa logica di Roberto Saviano: apre gli occhi agli italiani. Ribadisce la sua diversità antropologica e quella dell’opposizione PD. L’hashtag è #altracosa (sul titolo «facciamo due chiacchiere» lascio a voi). Inquadrato a mezza figura come un Carcarlo Pravettoni qualunque. Come uno sketch dei personaggi della Gialappa’s.

Renzi (anche qui come archetipo di un atteggiamento e di una prassi politica) ha già perso. Mette in scena la razionalità dell’essere umano, nella palinodia del buongoverno. Il riassetto della libreria come metafora di economia domestica del buongoverno. La sua è una proposta basata su un valore positivo, logoro, estetizzante. Il campione che si impegna per rappresentare il paese in un mondo buono. Invece la realtà è rotta, nessuno in un frangente come questo si sognerebbe mai di rimettere in ordine la libreria.

Salvini e anche i 5 stelle invece non usano un modello estetico, non vogliono ben figurare. Lo stesso Primo Ministro Conte al debutto in Parlamento col discorso d’insediamento è uno che subisce una prassi a cui è chiamato, un atto dovuto e nel farlo fa una gran fatica a raggiungere la mediocrità.

Salvini è più interessante. Video sporchi, in cui la realtà buca lo schermo in ogni momento. Salvini è uno vero, uno che vorresti al tuo fianco in una rissa, uno che si sporca le mani, uno che se fosse per lui metterebbe le mani in faccia al nemico ma non lo fa e sembra stia usando tutta la sua pazienza allo stremo per evitare una rissa. Echi di Bertoldo in salsa contemporanea. Infatti quando prende una posizione politica la sceglie arguta, discutibile, ampiamente irricevibile, ma necessaria nella gravità del frangente.

I cinquestelle per certi aspetti in video vanno anche oltre. Smontano il setting. Abdicano.

Guadagnano tempo con l’anamorfosi. L’ipotesi di questo è il rifiuto del contraddittorio nei talk show televisivi: la realtà è rotta, l’estetica è finta, loro non si muovono. Una sorta da obiezione di coscienza estetica.

Gusci vuoti in cui si sente l’eco della loro politica, una politica amatoriale, inesperta contro gli esperti, alla portata di tutti. Persone oneste che si danno da fare. A modo loro. Senza cedere un millimetro ai rituali e  ai minuetti della politica.

Rifiutare il contraddittorio non sta bene, non si fa, ma in tempi di mozzaorecchie è il minimo per sottrarsi alla manipolazione dei media. È perfettamente inserito nella cornice della loro narrazione.

Nel numero scorso di Wolf ho affermato che per arrestare questo meccanismo di accettazione automatica di un meccanismo narrativo bisogna mettere in campo altro. Bella intuizione, mi è stato risposto in segno di apprezzamento, ma cosa si può fare in pratica?

Alcune idee. Innanzitutto, se non puoi evitare di essere assimilato in qualcosa, cerca di essere eterogeneo, spurio, poco…. assimilabile. È una metafora alimentare molto istruttiva.

La prima: essere incongrui, paradossali.

Non tanto Stay hungry stay foolish, quella era la narrazione di dieci anni fa, quando usciva l’iphone. Più uno scavallamento della realtà in chiave surreale.

Se la realtà è rotta, essere surreali funziona, o rischia di funzionare.

Nel saggio «Sugli errori popolari degli antichi» Giacomo Leopardi scrisse a proposito dell’effetto che s’attribuiva ai tuoni  sulla crescita del «tartuffo» (o  «tartufo»). Lo riracconta Sebastiano Vassalli:

Dice dunque Leopardi che il tartufffo «credevasi nascere e perfezionarsi col mezzo dei tuoni, onde una stagione tempestosa riputavasi feconda di buoni tartuffi. Questi, dice Ateneo, hanno, per quanto narrasi, delle qualità tutte loro proprie. Induriscono col mezzo delle piogge autunnali e dei tuoni, i quali esercitano sopra di essi una influenza singolare, quasi cause immediate del loro crescere»

Io pagherei per imbattermi in qualcuno che se ne uscisse con un argomento così, che si contrapponesse all’adoperismo governativo con una posizione surreale. Un po’ come negare il format. Se prendi sul serio la narrazione avversa soccombi. Se tuoni sui tartufi qualcosa rischia di accadere.

credit: Fabrizio Lutzoni

La seconda – Anziché ribattere,  seminare tesori in luoghi inaccessibili.

Olivetti e Alvi scrivono una costituzione. Cosa c’è di più lontano e di più inattuale in questo frangente politico dell’investire nella progettazione di una forma di governo per la repubblica futura?

Olivetti e Alvi non mirano al consenso, non dedicano tempo a ristabilire il presente, ma lavorano per la felicità futura. Uno scrivere prudente, sognante, mai utopico se non «in un’utopia concreta»:

La Confederazione tenderà a un ordine economico ch’è l’opposto di quello corporativo; non considera l’economia un arto dello stato, ma la separa in ambito proprio, produttivo di fraterno ben vivere. Così tanto esso verrà poi distinto dall’agire statale che dichiarandosi una guerra, tale ordine potrà sentirsene sciolto, lasciarla finanziare da altre nazioni. L’unica riunione possibile dei tre ordini avverrà nell’io di ognuno.

La Confederazione si limiterà ad amministrare in comunità distinte, ordini triarticolati, le tre principali funzioni sociali. L’amicizia degli io umani sarà il fondamento di destino del nuovo ordine, ch’è migliore del liberismo, separando l’economia dallo stato ma inoltre favorendo il quotidiano articolarsi fraterno e non la rapina del più ricco. Ed è migliore del comunismo perché separa, non assoggetta all’economia lo spirito, favorendo nell’atto e nel movente di lavoro la fraternità, senza prepotenza statale.

Alla prepotenza di una parte, la Confederazione sostituirà in economia il movente solidale. Come la famiglia ha per fine il dono di sé ai suoi deboli, siano figli, genitori anziani o poveri; così l’ordine economico darà coscienza agli uomini di mantenere per libera scelta del loro dono, le scuole, gli ospedali, le accademie, proteggendone il fine pubblico, ma lasciando alla libertà dei singoli la scelta di spendere o donare il frutto del loro lavoro.

Geminello Alvi, La confederazione italiana: Diario di vita tripartita, Marsilio, Venezia 2013.

Un messaggio in bottiglia che dedicano a un loro interlocutore ideale futuro. Probabilità di beccarlo?

La stessa che ha un tuono nell’ingravidare un tartufo.

La terza – Lasciare spazio totale al già perso. Indietreggiare come i russi con Napoleone. Non ribattere. Negare l’agenda. Sottrarsi all’ordine del giorno. Non farsi audience, perché chi non ha un audience non incide.

Lavorare sulle paure, irrorare le zone che gli avversari evitano.

Far fioccare l’intonaco. Essere barocchi.

Essere il peggior incubo del realismo avverso. Progettarsi come peggior incubo inconcludente del realismo dell’istante sovrano. Un tuono è lontano. Un tuono non ha mai ucciso nessuno. Ma il tuono è complice segreto del fulmine. E il fulmine nell’istante sovrano ha una presa totale. Forse del fulmine hanno paura i tartufi. Solo per questo cercano il buio sotto terra. Ma sotto sotto hanno paura.