Bignami per conversazioni brillanti a tema

Fame di tool

Non c’è niente da fare. La fame di tool (o strumenti) è una delle ossessioni più grosse fra tutti coloro che lavorano online. Ed è comprensibile, in un certo senso, perché c’è talmente tanto da fare e talmente tanto da sapere che è necessario avere qualcosa che ti semplifichi il lavoro.

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Ecco, questo, forse, è l’unico approccio possibile al tool, perché il tool può avere una serie di problemi. Può non essere più aggiornato dalla software house che lo produce. Può fare chiamate ad API di servizi di altre piattaforme che ad un certo punto chiudono i rubinetti di alcuni dati. Possono succedere un sacco di cose. Per questo, in sede di definizione dei tool, sarebbe meglio procedere in una maniera un po’ diversa: capire prima quali sono i problemi da risolvere e i bisogni effettivi e poi decidere come risolverli. A volte può essere davvero un tool.

Altre volte il tool non esiste e magari va progettato. Quasi sempre, però, a monte c’è bisogno di un metodo e poi di uno o più tool per applicare il metodo. Mi sa che il metodo è il tool. Per venire incontro alle richieste degli abbonati di Wolf abbiamo aperto un sondaggio sul gruppo di conversazione di Facebook.

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Un sondaggio a cui puoi partecipare anche tu. Il nostro impegno sarà cercare di reperire metodi e strumenti per le esigenze più «gettonate» (fino ad esaurimento).

Mi sembra molto rilevante notare che la più gettonata di tutte è l’organizzazione del tempo.

Fake news is a fake news

Uno degli aspetti più rilevanti della diffusione rapida e soverchiante di concetti «di moda» è il fatto che ci vuole pochissimo tempo a far perdere di significato alle parole. Fake news è un problema, fake news è una moda ed è anche un modello di business. Fra le visioni più chiare che ho incontrato all’IJF17 sul tema ce ne sono state due. La prima è quella di Jeff Jarvis

Il giornalista americano – la faccio breve e semplice, per ampliare un po’ c’è il video – sostiene che si tratti di un fenomeno sempre esistito che si diffonde con mezzi nuovi e che, dunque, vada contrastato continuando a fare i giornalisti, con mezzi nuovi.

La seconda posizione fondamentale è quella di Craig Silverman che, per uscire dall’equivoco delle notizie non verificate o della titolazione a caso dei veri giornali durante eventi breaking, definisce le fake news in un ambito ben preciso. Secondo l’ideatore del Verification Handbook e direttore di Buzzfeed Canada, le fake news sono notizie false scritte deliberatamente da persone che sanno benissimo che sono false e che vogliono renderle virali online al solo scopo di monetizzare. In altre parole, le fake news, secondo Silverman, sono un modello di business.

Content marketing fatto bene

Mitch Joel, uno che scrive nella sua bio che Google lo chiama quando vuole formare tutti i suoi dipendenti per far capire loro quale direzione stia prendendo il mondo del marketing fra le aziende, ha scritto un pezzo che Why I Started Subscribing To The New York Times (It’s Not What You Think). Potrebbe sembrare solo content marketing per il New York Times. E in effetti lo è. Ma è anche molto altro. Joel scrive (la traduzione è, come al solito, del sottoscritto):

«Quando ricevo valore da qualsiasi prodotto o servizio, sono felice di pagarlo. Molte persone lo sono. I brand dovrebbero essere più attenti a questo, quando sono alle prese con la scelta: cosa faccio pagare, cosa do via gratis?»

E ancora:

«Questa non è un’opportunità solamente per gli editori online. Scommetto che milioni di persone pagherebbero per una versione premium di Facebook, di Twitter e via dicendo. Non siate scettici. Basta guardare non più in là di LinkedIn».

Mentre scrive questo, Joel, già che c’è, linka i suoi tre profili sulle tre piattaforme. E poi chiude con questa frase:

«Pagare per contenuti di qualità: non per dimostrare sostegno, ma perché il valore è lì. Creare contenuti di qualità con la medesima intenzione».

Insomma, il pezzo di Joel andrebbe portato in azienda, in redazione, da amministratori delegati e editori. Perché è content marketing fatto bene per i contenuti di qualità.

Guerrilla marketing fatto mh

Anche nel gruppo di conversazione di Wolf si parla di Egomnia – che poi vorrebbe dire, in qualche modo, si parla del film The Startup. Tre link, già passati nel gruppo: AntonioSimeone su Econopoly e Marco Camisani Calzolari su Facebook (certo, a volte le cose interessanti passano anche attraverso il guru business model) e infine Luca Zorloni su Wired. Non so se valga davvero la pena di approfondire ulteriormente: ci starebbe il solito pistolotto sulla stampa italiana che pubblica e non verifica (e sul fatto che ci casca pure la BBC), c’è chi dà la colpa alla storytelling (alé) e poi ci sono indicatori di verità di cui non si può dubitare. In un mese, la campagna di crowdfunding di Egomnia su Indiegogo ha raggiunto 15 dollari su un obiettivo di 100mila in un mese.

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Una metrica abbastanza definitiva per valutare una presunta startup che dovrebbe essere disruptive (ma disruptive tipo Facebook eh?).

Cosa si dovrebbe imparare, da questa storia? Che un chiaro piano di comunicazione può far breccia sui giornali in maniera relativamente facile. Magari potremmo pensare di metterne in piedi uno per contenuti o startup di valore? Certo, poi si rischia di scontrarsi col fatto che i tuoi contenuti di valore potrebbero non essere interessanti quanto la biografia presunta di un presunto Zuckerberg italiano. Ma tu non vuoi una copertura stampa di massa che poi porti le persone a fare il debunking della tua strategia di comunicazione. Tu vuoi parlare alle persone che sono realmente interessate a te.

Marketing fatto peggio

Senza parole, e grazie a Michele Boroni per averlo postato nel gruppo.

Comunicazione visuale senza senso

La Puglia che usa le viti del Cile per pubblicizzarsi. Repubblica che stigmatizza la regione Puglia perché ha usato le viti del Cile per pubblicizzarsi e ci fa su una gallery. Amen.

Certificazioni da Facebook

Il corso è per giornalisti, ma potrebbe essere utilizzato anche da chi non lo è. Fatto sta che Facebook, ieri, ha annunciato che dopo averci spiegato in maniera abbastanza basica e poco interessante come usare Facebook per farci seguaci – il corso me l’ero fatto fin dal principio – adesso la piattaforma di Zuckerberg ha ideato tre nuovi corsi insieme a Poynter. Corsi che saranno regolarmente aggiornati. Da provare, e non per il certificato. Sono da provare perché bisogna formarsi costantemente.

I dieci comandamenti

Calabresi, Molinari e Mentana si sono ritrovati a Torino a parlare dello stato dell’arte del giornalismo. I dieci comandamenti che ne sono venuti fuori sono stati riportati da AGI. Non so decidere se meritino un commento puntuale o meno. Quel che so è che meno di 24 ore dopo la pubblicazione di questi comandamenti, i giornali italiani online facevano la solita cosa che fanno sempre con il camion di Stoccolma. Fretta, velocità, gara a spararla più grossa. Cioè: si dice di far bene, qualunque cosa significhi, e contemporaneamente i fa quel che «si è sempre fatto».

Medium

Dopo due settimane ho scritto quel che penso sull’esperienza di abbonato a Medium. L’ho scritto in inglese (per quel che sono in grado di fare, chiaramente) perché mi serviva anche per il gruppo in cui i «fondatori» danno feedback. Sono anche entrato in contatto con lo staff di comunicazione di Medium, cui ho fatto una serie di domande per Wolf, anche se non è semplice ricevere risposte.

I numeri, per il momento, non vengono diffusi, quindi non c’è modo di sapere né quanti siano i sottoscrittori al momento, né quale sia il break even.

L’unica cosa che ci è dato di sapere è che al momento a Medium cercano «persone che siano in grado di scrivere a proposito di temi specifici con professionalità. Ci stiamo focalizzando su pezzi che coprano i seguenti argomenti: politica, lavoro, miglioramento personale, futuro».

Ho fatto notare che, al momento, come subscriber, mi sento un po’ un beta tester e che il prodotto per cui pago sembra piuttosto informe, e che gli argomenti sono un po’ troppo USAcentrici. Anche in questo caso la risposta è stata piuttosto standard: «stiamo aumentando il numero degli argomenti per Medium, e abbiamo annunciato l’aggiunta di nuovi argomenti, in base ai feedback dei nostri abbonati». Nel frattempo, chiunque di noi può chiedere di diventare partner (ovvero, di scrivere pagato da Medium). Ovviamente è d’uopo provarci per comprendere anche quella parte del meccanismo.

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Il problema principale, però, è che mi sembra che Medium stia cercando, molto semplicemente, di creare una piattaforma di pubblicazione, per scrittori o giornalisti, sulla base del fatto che è Medium e ha una comunità di persone che si fidano di Medium come piattaforma. Che non significa fidarsi di Medium come editore (anche se non lo esclude).