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Algoritmi e fake news (e valutazioni umane)

In un’intervista al vicepresidente di Google, Massimo Russo ha fatto emergere alcuni temi che potrebbero essere ben noti a chi ha dimestichezza con i motori di ricerca ma che vale davvero la pena di riprendere qui, dove non abbiamo esigenze di semplificazione e possiamo, anzi, complicare.

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Partiamo da un punto che passa quasi inosservato: lo 0,25% dei risultati su Google è sbagliato. Arriva così, in una domanda, come dato di fatto. Ma cosa vuol dire, esattamente, «sbagliato»? E dall’altra parte, cosa significa «giusto»? Significa forse che tutte le voci di Wikipedia (è sempre prima su Google, lo sappiamo e sappiamo più o meno anche il perché, qui su Wolf) sono «giuste»? La risposta, naturalmente è: «no». E questo già dovrebbe metterci in guardia rispetto a tutta questa storia sulle fake news e simili.

La risposta a questa query, contenuta in questa SERP, è «giusta»?

L’approccio dicotomico giusto-sbagliato, in altre parole, non ha senso.

Quel che ha senso è sapere come sta agendo Google, una finestra fondamentale per questo tipo di ricerche, per «arginare» il fenomeno delle fake news (una battaglia pericolosissima).

«Nella maggior parte dei casi questi risultati arrivano da pagine che non hanno autorevolezza. Le modalità con le quali funziona l’algoritmo sono contenute nelle linee guida per i valutatori».

Quindi, abbiamo due informazioni. La prima è che se un sito ha autorevolezza sarà molto difficile che qualcuno che lavora per Google – aggiungerei: chiunque sulle varie piattaforme OTT – lo confuti (il principio dell’auctoritas vale anche oggi).

La seconda è che ci sono delle linee guida per i valutatori e che ci sono degli esseri umani che lavorano in termini di valutazione dei contenuti. Linee guida che, attenzione, sono pubbliche. In verità sono pubbliche da tempo: girano sotto forma di leak da almeno dieci anni. Un paio d’anni fa Google le ha rese disponibili in via ufficiale (all’epoca, fra l’altro, intervistai un quality rater).

Il pdf delle linee guida va scaricato e studiato per capire di cosa stiamo parlando. Immagino che non ti stupirà sapere che uno dei concetti fondamentali è la centralità delle persone.

Quanto alle «azioni» sulle fake news, fortunatamente in Google sono prudenti, almeno a parole, e non agiscono nell’immediato (se Google agisse sull’onda emotiva e dell’emergenza non sarebbe leader fra i motori di ricerca).

Ben Gomes chiude così le sue risposte a Russo:

«Prendiamo la nostra responsabilità molto seriamente, ma non siamo la sola fonte. C’è l’informazione, ci sono le fonti ufficiali. Le persone vengono da noi quando hanno un quesito, ma noi non forniamo loro la domanda, solo la risposta. La migliore che esista».

Ecco, questa risposta fa un po’ sorridere, almeno per un quarto. «La migliore che esista» andrebbe quantomeno edulcorato così: «Tentiamo di dare alle persone la miglior risposta possibile relativamente alla loro ricerca e all’intento di ricerca che interpretiamo».

La parte che non fa sorridere, invece, è «c’è l’informazione, ci sono le fonti ufficiali». Cosa ha intenzione di fare, l’informazione, quando è sempre costretta – per scelta eh – a semplificare, ad andar veloce, a rincorrere il click? Deve farselo dire dal vicepresidente di Google, che deve fare meglio? Oppure deve capirlo da sé, con i suoi addetti ai lavori? Se la miglior risposta che si sa dare è la richiesta di essere autorizzati a far cartello per trattare con le OTT, ho paura che la linea del declino non abbia ancora raggiunto il suo plateau negativo.

Less is more

Uno dei concetti che ci sta più cari da queste parti è l’ottimizzazione anche in termini di produzione dei contenuti. Less is more è uno dei mantra che mi porto appresso in tutti i miei eventi formativi. Funziona così. Funziona che scrivere meno per scrivere meglio è un’ottima idea. Adesso, guarda un po’, qualcuno sta scoprendo che vale anche per i messaggi pubblicitari. Cioè: se affolli meno possibile la tua pagina, le persone saranno più interessate al messaggio, gli indicatori come il CTR aumenteranno.

Iniziare ad agire in tal senso – no, non è troppo tardi – significherebbe agire d’anticipo, per una volta, rispetto all’intento di Google di introdurre una sorta di blocco per gli annunci all’interno di Chrome (una linea che possiamo molto facilmente immaginare seguita da tutti gli altri browser a ruota). Come al solito, perché farsi dettare la linea dalle OTT? Quel che vogliono le persone lo sappiamo già. Vogliono essere servite meglio possibile.